Di Michele Illiceto
Chi era don Carlo Sansone? Era un forestiero tra i suoi. Era troppo avanti per essere capito. Era un apolide di Dio tra credenti assopiti e tra cristiani spesso annacquati. Un prete di strada tra quanti invece concepivano le parrocchie come feudi da amministrare. Non aveva una parrocchia perché la sua parrocchia era la strada, i vicoli, le piazze, i giardini notturni, le scuole difficili, come lo era l’Industriale negli anni Settanta. Ciò che per gli altri era scarto, per lui era vangelo vivo e sacramento di quel Dio che un giorno lo ha conquistato e fatto innamorare della bellezza di essere seme di vita per gli altri.
Don Carlo era uno sradicato fra la sua gente, uno che vedeva con gli occhi del vangelo orizzonti invisibili ai più. Un prete che ha continuato a credere in un tempo in cui molti hanno smesso di credere, o che hanno inteso la fede come una forma di potere e non come un cammino di spoliazione. “Sono circondato – ha scritto in uno dei suoi ultimi testi che mi ha dato il privilegio di leggere – da persone con scarso esercizio di fede, e persone senza fede; il Dio della professione di fede è il dio della convenienza, di fariseismo religioso che si copre di squallore, miope di carità” (Il mio cammino nella Chiesa, p. 8).
Don Carlo è conosciuto come il prete degli emarginati e degli ultimi. Io stesso rimasi affascinato dalla sua figura austera e severa, quando, nel 1976, spinto da un altro grande prete, don Mario Carmone – il prete del quartiere – cominciai con un gruppo di adolescenti ad andare a fare volontariato nell’allora Ospizio “Anna Rizzi”. Lui ci vide e ci cacciò, pensando che andavamo lì solo per gioco, solo per metterci a posto la coscienza, per sentirci arrivati e garantiti dalle buone azioni che riuscivamo a fare. Per poterci vantare che eravamo i buoni e i migliori. Lui era così. Non amava la doppiezza e l’ipocrisia che non si attardava a smascherare e denunciare. Poi ci conobbe meglio e cominciò a incoraggiarci, prendendoci solto le sue ali per educarci al cuore del vangelo che è l’amore per il prossimo.
Don Carlo è stato il primo prete in provincia a occuparsi delle ragazze che si prostituivano per strada o in casa, e non tanto e solo per riportarle all’ovile, ma per aiutarle anzitutto a uscire dal giro e ritrovare la dignità perduta, prima come persone e poi come donne. A liberarsi da coloro che le avevano rese schiave del sesso. E anche in quella circostanza non venne capito. Anzi molti fraintesero il suo impegno, denigrandolo o gridando allo scandalo.
Don Carlo è conosciuto anche e soprattutto come il prete dei drogati, essendo stato uno dei pionieri e dei primi in Capitanata al recupero dei tossicodipendenti che cominciava a portare a casa sua. Questo faceva quando i drogati erano ancora considerati dei perversi e dei perduti, degli irrecuperabili, e non frutto di una società malata, portatori di un disagio il più delle volte familiare, relazionale, esistenziale. Don Carlo, avvalendosi anche delle sue conoscenze mediche e farmaceutiche, li curava sia nel corpo ma soprattutto nell’anima.
Da allora, dietro la sua porta della sacrestia della cappella dell’Ospizio prima e della chiesetta di S. Andrea dopo, si formava quasi ogni giorno una lunga fila di gente che cominciava a sentire i colpi di una società che se dava beni materiali, in fondo inaridiva dentro. Lui sapeva curare, oltre al corpo, e lo spirito e l’anima. E lo faceva sia usando le conoscenze psicologiche, ma soprattutto con quella tenerezza che gli proveniva dal vangelo. Ti leggeva dentro, e ti aiutava a fare discernimento, A rimettere ordine nella tua vita. La sua era una profonda direzione spirituale, per nulla bigotta o devozionistica, ma anche un ri-orientamento esistenziale.
Il suo metodo era quello di mettere in crisi le false impalcature sulle quali molti avevano costruito le proprie esistenze. E’ stato il primo ad accogliere i divorziati, uomini e donne che tradivano non per cattiveria, ma solo per debolezza, o perché amavano con un amore sbagliato. Non giudicava, ma ascoltava, lasciava parlare. Era un grande ascoltatore delle storie della gente, specie di quelle ferite e spezzate. Le vite perse. Le vite di scarto.
E lui come via di guarigione proponeva un cammino di liberazione interiore, un cammino dove importante diceva era ritrovare se stessi, la propria bellezza e la propria dignità, che chiaramente per lui – da credente – derivava dal fatto che ogni uomo e ogni donna portano scalfite l’immagine di Dio, perché concepiva il finito e il relativo come epifania dell’assoluto e dell’Infinito. E lui si inchinava per guarire, per lenire, per condividere. E, quando non ci riusciva, restava accanto, in silenzio, in attesa di un piccolo spiraglio di cambiamento.
Don Carlo quindi un uomo di azione? Pragmatico? Assolutamente no. Don Carlo era fondamentalmente un mistico, un contemplativo. Si era formato alla scuola di Padre Charles de Foucauld, l’eremita di Tamaransett, morto martire, ucciso dai Tuareg. Don Carlo si era creato un deserto in casa, un’oasi spirituale nella città. Infatti a casa sua, a Mattinata, aveva una piccola stanzetta dove era deposto il Santissimo Sacramento, e quando qualche volta andavamo a trovarlo, ci diceva di passare prima a salutare “il padrone di casa”. Ma accanto a quella ve n’era in altro dove quasi sempre ospitava qualche diseredato. E così aveva in casa sia il sacramento divino che quello uamano.
Davanti all’Ostia santa passava, in silenzio e di nascosto, ore e ore a pregare, a meditare, ma soprattutto lì offriva se stesso per tutti coloro che lo incrociavano per strada. Era, come avrebbe detto qualche anno dopo un altro grande della nostra terra pugliese, don Tonino Bello, un contempl- attivo. Tra due luoghi ha svolto il suo sacerdozio itinerante, tra la strada e l’altare come un samaritano che andava in cerca di malcapitati da portare alla locanda e qui prendersene cura.
Come non ricordare la Fraternità “Paolo VI” da lui fondata insieme ad alcuni laici. E’ stato il primo a Manfredonia a creare una mensa per i poveri e i barboni, la maggior parte dei quali era formata da alcolizzati, ex carcerati, disoccupati, persone sole, sbandati. Mi ricordo ancora molti dei loro nomi. E’ stato il primo a creare un servizio di doposcuola per i ragazzi che lascavano la scuola e che venivano emarginati perché non abbastanza bravi. La fraternità cresceva di numero di volontari, e chi veniva sapeva che veniva per servire gli ultimi senza servirsi degli ultimi. Solo che il vero miracolo era che chi veniva per aiutare e guarire gli altri, in fondo si trovava guarito egli stesso per primo.
Don Carlo non si sentiva straordinario, eroe o santo, profeta o altro. Una cosa è certa: chi lo incontrava andava in crisi. Si, don Carlo non era per niente dolce. Era duro, a volte rigido. Ma prima che esserlo con gli altri lo era con se stesso. Austero. Non amava veli o doppi giochi. Non cercava consensi o approvazione. Non voleva piacere agli uomini ma solo a Dio. La sincerità era segno di carità. Voleva che chi andava da lui trovasse in primo luogo la verità di se stesso. Non amava le bugie o le finte promesse di cambiamento. Sapeva unire l’austerità dei padri del deserto con la pazienza del pastore che andava sempre in cerca della pecorella smarrita.
Lui ti smontava, ti disarmava. E ti davanti a lui eri come chi non aveva più difese Ti metteva di fronte alle tue fragilità, alle tue cadute e alle tue ferite. Al tuo peccato. Ma poi sapeva versare l’olio della tenerezza e l’unguento della speranza. Accendeva la luce della tua lampada spenta. E tu ti rialzavi e cominciavi a camminare. Ti sentivi nuovo dentro e fuori, e allora ti trovavi cambiato, con una voglia matta di cambiare anche gli altri. Pagando di persona, come ha fatto il crocifisso che lui ha amato sopra ogni cosa. E tutto questo solo per amore. Si, per quella parola che oggi è come scolorita, svuotata.
“La carità – ha scritto sempre in quel testo – è Dio, e Dio è carità, fuoco che brucia, purifica, rinnova…Ho imparato a seminare dove Dio semina, a mietere dove Dio miete”.
Si, caro don Carlo, hai seminato tanto, e ora sono certo che il grande Agricoltore della storia ti abbraccerà con quella infinita tenerezza che tu hai cercato di dispensare in tutti colo che hai incontrato.
Riposa in pace, maestro mio!