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22 Nov

Nicholas Fiorentino sangiovannese doc, nipote del grande artista (Francesco Paolo Fiorentino detto “Cecchino”) presenta il suo primo film da produttore.

Nicholas Fiorentino sangiovannese doc, nipote del grande artista (Francesco Paolo Fiorentino detto “Cecchino”) presenta il suo primo film da produttore.

L’appuntamento è fissato per sabato 9 dicembre 2023, alle ore 21, alla Citta del Cinema di Foggia.

Prevendita al seguente link o sul sito della multisala La Città del Cinema.

Una pianista e un violinista che lavorano in nero per un ristoratore dispotico. Un aspirante attore che alterna i rari provini alle frequenti a scopate senza futuro. Una hostess che disegna, canta, balla da sola e non crede (più) all’amore eterno, considerandolo un sentimento che si possono permettere solo i ricchi. Sono i quattro protagonisti, tutti alle soglie dei trent’anni, di una storia crepuscolare che si svolge in una Roma sporca e ostile, soprattutto ai giovani, cui offre solo umiliazioni della loro dignità e l’invito costante ad accantonare i propri sogni e le proprie aspirazioni artistiche. Non credo in niente è uno spaccato della società liquida delineata da Zygmunt Bauman quando scrive che “le nostre vite individuali sono frammentate in una successione di episodi mal collegati fra loro”, ed è dunque il ritratto di una contemporaneità sconnessa e disorganica nella quale soprattutto i giovani adulti si aggirano senza meta e con tanta rabbia in corpo.

Il pensiero di Bauman riflette, o impone, la struttura stessa del lungometraggio di esordio di Alessandro Marzullo, girato in 13 giorni (non consecutivi) e costituito da momenti slegati nell’esistenza inconcludente dei suoi quattro protagonisti.

Il problema però è che i quattro appaiono più velleitari che ricchi di talenti nascosti, lamentosi e aggressivi non solo in quanto vittime di una frustrazione collettiva e di un’ingiustizia socioeconomica, più atteggiati che genuinamente sofferenti. E questi purtroppo sono anche i difetti della messinscena nel suo complesso: troppi virtuosismi non necessari al racconto – dalle inquadrature inclinate alle immagini riflesse alle dissolvenze incrociate, solo per citare qualche esempio – e troppa attenzione alla sperimentazione visiva a fronte di una sceneggiatura veramente esile e poco coinvolgente, il cui essere volutamente destrutturata (come le vite che racconta) va a detrimento dell’efficacia narrativa del film.

Anche le scelte tecniche, per molti versi estreme, sono superiori al valore di una storia così approssimativa. Marzullo usa il Super 16mm DCP, che porta con sé il formato 1.66:1 associato a molto cinema indipendente e di genere anni Ottanta e Novanta e ai film di alcuni maestri (uno per tutti lo Stanley Kubrick di Arancia meccanica e di Full Metal Jacket), nonché di alcuni registi più recenti come il Derek Cianfrance di Blue Valentine, che sono termini di paragone alti, o addirittura altissimi, con i quali ci si dovrebbe confrontare con cautela. Il formato da un lato consente a chi gira di prendersi tutto lo schermo, dall’altro invita all’intensità dei primissimi piani, ma non è sufficiente se ciò che si racconta è inconsistente e se le scelte estetiche restano fini a se stesse.

Citare Cassavetes – come fa Non credo in niente esplicitamente attraverso la t-shirt del personaggio dell’aspirante attore – non basta a creare un film che ne erediti l’immediatezza narrativa e il coraggio comunicativo attraverso un metodo fortemente sperimentale: anche il cinema indie ha sempre avuto una sua grammatica, che va rispettata se si vuole arrivare al pubblico. L’unica coerenza qui è invece assicurata dalle musiche di Riccardo Amorese, le cui volute dissonanze accompagnano il peregrinare irrisolto dei personaggi e intessono quella linea narrativa comprensibile che manca alla sceneggiatura.

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