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16 Apr

La notte dell’Epifania sangiovannese

Di Giulio Giovanni Siena

Nel 1901 G.B. Marchesi riportò una credenza di San Giovanni Rotondo sull’Epifania.

«A San Giovanni Rotondo, il dì dell’Epifania, in ogni famiglia, si appresta su un tavolo una cena pei morti: pane e acqua santa. La notte, si crede che i morti entrino in casa e benedicano il pane. Il quale viene poi diviso tra i membri della famiglia. Durante quella notte, non si deve girar per le strade, né stare alla finestra, perché i morti passano; e quelli morti di malattia non fanno alcun male ai viventi, ma quelli uccisi violentemente passano con una falce e recidono il capo a quanti incontrano. I morti vanno anche in chiesa a pregare, e suonano le campane.

Si racconta che, una volta, una donna, sentendo suonare al campanile, credendo fosse il segnale della solita messa mattutina, s’alzò, uscì di casa, e trovata aperta la chiesa, vi entrò. Qual fu la sua meraviglia quando, guardando nel volto a quelli che le stavan vicini, riconobbe vecchi parenti, vecchi conoscenti ch’eran morti da un pezzo. Uscì il prete per la messa. Quel prete, quel sagrestano eran pur morti da dieci anni. La povera donna si mette a tremare dalla paura. A un tratto, una vecchietta che le sedeva presso, si alza, la tocca, la chiama per nome. “Noi siamo morti”, le dice, “Non sai? Fuggi presto, fuggi di qui, se non vuoi restare con noi per sempre”.

La donna fugge, è già sulla soglia della chiesa, ma, ahimè! Scoccano le ore, la porta impetuosamente si chiude, ed ella vi rimane impigliata con la gonna. La mattina, il sagrestano, quando si recò ad aprire la chiesa, trovò la donna sui gradini, svenuta».[1]

L’episodio raccontato dal Marchesi, secondo la tradizione orale, sarebbe accaduto nella Chiesa di Sant’Orsola, detta anche Chiesa del Purgatorio e sede della Congregazione dei morti.

Lo stesso accennò anche al giorno di San Giuseppe in cui “si accendono grandi fanoje, e, a mezzanotte, ogni famiglia prende un po’ di fuoco del braciere rimasto; il quale, dicesi, è sacro”.

Infine parlò dell’ultimo giorno di carnevale in cui “i contadini fanno una grande scampanata, colle campanelle delle mandre, e portano attorno un fantoccio rappresentante il Carnevale. Vestono talvolta il costume tradizionale che comporta una giacca e un berrettone di pelle di capra o di pecora”.[2]

Ornavano la persona numerosi cam­panacci e campanelli armentizi, appesi lungo la cintola e di traverso sul petto. L’andatura ritmica saltellante produceva un fracasso più o meno assordante, la cui intensità e tono dipendevano dal tipo di metallo e dalla grandezza delle campane utilizzate. Poiché il rumore si propagava fastidiosamente nelle abitazioni, il decurionato di San Giovanni Rotondo nel 1850 proibì “il suono strepitoso delle campane de’ armenti, e gli urli in tempo di notte e di giorno, che con di­sturbo generale si praticavano nel Carnevale dalla turba degli ubbriachi per tutto l’abitato”. Oltre alla sanzione pecuniaria il Giudice Regio poteva infliggere ai trasgressori anche una pena carceraria.[3]

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[1] G.B. Marchesi, IN CAPITANATA (Impressioni di un folklorista) Estratto dell’Archivio per le tradizioni popolari. Vol. XX, fasc. I), Palermo, Tipografia del Giornale di Sicilia, 1901

[2] Ibidem

[3] Archivio comunale di San Giovanni Rotondo, art. 5 del Regolamento di Polizia urbana del 30 giugno 1850. 

Fonte padrepiosangiovannirotondo

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