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06 Nov

Il Gargano: la montagna dell’arcangelo Michele

8 Maggio 2017
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Sul promontorio del Gargano, a 831 metri d’altezza, tra boschi secolari ed un mare cristallino, sorge la città di Monte Sant’Angelo: dalla sua posizione panoramica domina, a ovest, il Tavoliere delle Puglie e, a sud, il Golfo di Manfredonia.

La roccia su cui il paese si adagia è di natura calcarea e, per questo motivo, si aprono al suo interno numerose caverne tra cui notissima è quella di San Michele.

Le vicende di questa Grotta, designata dall’Arcangelo come sua sede terrena, costituiscono il fulcro dell’intera storia della città. Secondo la leggenda, qui San Michele apparve per ben quattro volte.

Da questi eventi prodigiosi prese avvio la diffusione del culto micaelico nel mondo occidentale. Già a partire dal IV secolo, il culto dell’Arcangelo era ampiamente diffuso in Egitto, in Asia Minore e a Costantinopoli e si caratterizzava per alcuni elementi che, successivamente, si ritroveranno nella tradizione culturale garganica: lo scenario naturale, l’acqua risanatrice, le apparizioni. In Oriente, con poi anche in Occidente, S. Michele era venerato anzitutto nelle sue funzioni di guerriero: Capo delle Milizie celesti, combatté contro Satana per affermare la supremazia di Dio. Il suo nome infatti significa “Chi come Dio”. Ma la sua figura era anche legata alla funzione di taumaturgo e di “psicopompo”, cioè di pesatore delle anime.

La tradizione fa risalire l’avvio del culto miacaelico sulla montagna garganica intorno all’ultimo decennio del V sec, fissando al 490 – 492 – 493 le prime Tre Apparizioni. La ricostruzione della storia del Santuario e del culto di San Michele sul Gargano si sostanzia nel “Liber de apparizione Sancti Michaelis in Monte Gargano” (Apparitio), un’operetta agiografica datata tra il V e l’VIII secolo. Il “Liber” narra il racconto della Prima Apparizione, detta del “Toro”, avvenuta proprio l’8 maggio.

Un giorno un ricco signore di Siponto faceva pascolare gli armenti sulla montagna del Gargano. All’improvviso scomparve il più bel toro. Il padrone lo cercò affannosamente nei luoghi più nascosti e diruti fino a ritrovarlo sulla vetta della montagna, inginocchiato all’apertura di una spelonca. Preso dell’ira, scoccò una freccia contro l’animale ribelle ma, in modo inspiegabile, anziché colpire il toro, il dardo ferì al piede il ricco signore. Turbato per l’accaduto si recò dal vescovo di Siponto, Lorenzo, il quale, dopo aver ascoltato lo straordinario racconto, ordinò tre giorni di preghiera e penitenza. Allo scadere del terzo giorno, al presule apparve l’Angelo che gli disse: «Io sono l’Arcangelo Michele e sto sempre alla presenza di Dio. La caverna è a me sacra, è una mia scelta: io stesso ne sono vigile custode. (…) Là dove si spalanca la roccia possono essere perdonati i peccati degli uomini. (…) Quel che sarà qui chiesto nella preghiera, sarà esaudito».

Anche la Seconda Apparizione è attestata, nel 492, all’8 maggio, in coincidenza della Vittoria dei Longobardi sui Bizantini che assediavano il Santuario. Tale Vittoria fu descritta negli ambienti longobardi come voluta e assicurata dallo stesso Arcangelo. Per questo San Michele divenne il loro patrono – protettore e l’8 maggio si attestò come dies festus.

Le origini del culto e il Liber de Apparitione.

La nascita del culto di S. Michele sul Gargano è da mettere in rapporto principalmente con l’origine del cristianesimo a Siponto. Infatti il fenomeno non può essere visto nella sua specificità se non viene inquadrato nella progressiva diffusione del cristianesimo sul Gargano e nelle località vicine, soprattutto Siponto, Salapia e Lucera. Questi centri, già all’inizio del IV secolo, erano cristianizzati, anzi erano sedi episcopali. Infatti le fonti attestano la partecipazione di Pardo, vescovo di Salapia al concilio di Arles del 314 e di Felice e Palladio, vescovi rispettivamente di Siponto e Salapia, al sinodo romano del 465. Lucera, poi, era già un centro fiorente e ricco di comunità cristiane, che disponevano di un monasterium che risaliva alla prima metà del V secolo. Da Siponto partivano le numerose piste, sicuramente esistenti già in età antica, che collegavano le città garganiche fra di loro con il centro di Siponto. Infatti i centri garganici avevano la loro ragione di vita principalmente attraverso gli scambi commerciali di cui erano protagoniste Siponto e le altre città daune del Tavoliere. Questa attività di scambi è documentata dalla presenza di numerose comunità cristiane che si vennero ad insediare nei vari ipogei e complessi paleocristiani collegati fra di loro da una fitta rete stradale. Proprio per questo, afferma G. Alvisi, “appare, così, antistorica l’immagine del Gargano come una montagna vuota dove, sul finire del V secolo, si accese il faro luminoso del santuario di S. Michele. Al contrario, essa fu sempre abitata ed i suoi centri, legati fra loro via mare e attraverso non facili mulattiere, dovettero partecipare, sia pure tacitamente, alla vita della Daunia” (Alvisi 1979, p. 27). Quindi il Gargano non era isolato, come si potrebbe pensare, anzi aveva una vita sociale ed economica già prima del 490-93, allorquando vi si collocano le apparizioni di S. Michele. Ed è da questo momento che Monte Sant’Angelo entra nella storia di Siponto cristiana, in cui appare per la prima volta la figura del vescovo Lorenzo Maiorano sotto cui si ebbero le apparizioni dell’Arcangelo e che segnarono l’inizio di un vasto programma di rigenerazione spirituale, attraverso la costruzione di nuove chiese e l’abbellimento di quelle esistenti. Dalla Vita sancti Laurentii episcopi Sipontini si evince che Lorenzo successe al vescovo sipontino Felice che si era distinto per la sua umiltà. Lorenzo venne ad essere scelto direttamente dall’imperatore Zenone (476-491), dopo che il clero e il popolo sipontino, in seguito ai disordini provocati dalla guerra fra gli Eruli e i Goti (489-493), avevano fatto esplicita richiesta di un vescovo all’imperatore. Infatti una missione s’imbarcò per Costantinopoli il cui imperatore, Zenone, concesse Lorenzo, suo parente. Secondo G. Otranto il testo della Vita sarebbe stato scritto nell’XI secolo, in ambiente filobizantino e costantinopolitana, come risposta alla storiografia longobarda (Paolo Diacono, Erchemperto, Chronica sancti Benedicti Casinensis, ecc.) che, tra VIII e IX secolo, si era appropriata delle origini del santuario garganico.

Sul piano storico la Vita rispecchia le vicende storiche di un periodo particolarmente travagliato per la Puglia, sconvolta tra V e VI secolo dalle scorrerie di popolazioni barbariche e da episodi connessi alla guerra greco-gotica (535-553), che videro vacanti molte diocesi pugliesi, tanto da richiedere, come nel caso di quella di Siponto, la nomina di un vescovo direttamente dall’imperatore bizantino, unica istituzione legalmente riconosciuta. Ed infatti, dopo la morte del vescovo Felice, la diocesi di Siponto rimase vacante a causa dei disordini provocati dalla guerra tra gli Eruli di Odoacre e i Goti di Teodorico (489-493), per cui, sedati in parte i disordini, una delegazione di Sipontini si recò dall’imperatore d’Oriente per chiedere che nominasse un vescovo per la loro diocesi. L’imperatore nominò vescovo Lorenzo, suo consanguineo, ritenendolo uomo santissimo, degno di ricoprire tale carica. Egli partì da Costantinopoli, portando con sé alcune reliquie di martiri, Stefano e Agata. Sbarcato in Puglia, fu accolto trionfalmente dal popolo sipontino, grati all’imperatore per la nomina del nuovo vescovo. Sotto il suo episcopato si ebbero le prime apparizioni di S. Michele, iniziando così quel rapporto privilegiato fra S. Michele e Siponto, per il tramite di Lorenzo, instancabile propulsore di vita spirituale e di iniziative ecclesiastiche, fra cui la costruzione di numerose chiese ed edifici sacri.

Ma, oggi, si tenta di inquadrare le origini del culto di S. Michele, ancora prima dell’epoca di Lorenzo e quindi di papa Gelasio I (492-496), erroneamente accomunati dalla Vita nel 490. Come è noto Gelasio diventò papa nel 492. Probabilmente, afferma G. Otranto, bisogna anticipare la data della nascita del culto micaelico verso la metà del V secolo, allorquando la nuova fede, dopo la cristianizzazione delle zone pianeggianti, da Siponto raggiunse la cima della montagna. A tale riguardo fanno fede due lettere di papa Gelasio in cui si riferisce di due chiese dedicate all’Arcangelo nelle diocesi di Larino e di Potenza, costruite rispettivamente nel 494 e nel 496. Evidentemente il culto micaelico e il conseguente sviluppo del pellegrinaggio avevano già una loro notorietà e una diffusione nelle zone circostanti, in seguito ai primi pellegrinaggi verso il monte.

L’accostamento del vescovo Lorenzo e di papa Gelasio sarebbe da imputare ad un passo riguardante la vita di Gelasio I (492-496) tratto dal Liber Pontificalis, in cui si fa risalire erroneamente l’inventio della chiesa garganica all’epoca di questo papa: “Huius (Gelasii) temporibus inventa est aecclesia sancti Archangeli in monte Gargano”. Secondo alcuni studiosi tale espressione del Liber Pontificalis, riportata nel codice Vaticano Latino 3764, dell’XI-XII secolo, è sicuramente interpolata ed è da ascrivere presumibilmente ad Anastasio Bibliotecario il quale, nella prima metà del IX secolo, collaborò a revisionare la biografia di alcuni pontefici del Liber Pontificalis, fra cui quella di Gelasio I. Anastasio avrebbe fuso in una unica tradizione quella riportata dall’Apparitio e quella della consacrazione delle due chiese dedicate a S. Michele, rispettivamente a Larino e a Potenza, in modo da colmare una lacuna tanto nella biografia di Gelasio quanto nella storia del culto micaelico in Puglia.

Tuttavia, oggi, la storia del santuario e del culto dell’Arcangelo Michele sul Gargano è ricostruita prevalentemente dal Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano (=Apparitio), di autore anonimo e di incerta datazione. Tale documento, come vedremo, fa riferimento a tre avvenimenti principali, privi all’apparenza di ogni riferimento preciso a episodi o personaggi storici e difficilmente inquadrabili in un quadro unitario ed omogeneo. Ciò ha dato origine a diverse datazioni, tanto che, per esempio, il Testini afferma che l’Apparitio è stata scritta dopo il sec. IX, anche se la compilazione deriva da un libello anteriore già conservato nello stesso santuario che potrebbe risalire fino al VI secolo. Questa stessa fonte potrebbe essere stata utilizzata anche nella redazione della Vita di S. Lorenzo, vescovo di Siponto e successore di Felice, della quale restano due versioni, una originale del IX-X secolo, che la critica più recente chiama minor, e l’altra interpolata e posteriore (la maior) di circa un secolo. Waitz, Gay e Lanzoni, invece, datano l’Apparitio al IX secolo, mentre lo Stiltingh la ritiene opera composta fra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del IX. Quest’ultimo afferma, infatti, che, se l’autore del testo fosse stato contemporaneo agli avvenimenti, non sarebbe incorso nell’errore di far derivare il nome Gargano dal nobile signore del luogo. Per quanto si sa il nome Gargano era così denominato già al tempo di Virgilio e di Orazio. Per quanto poi riguarda la Vita sancti Laurentii fu P. G. Bolland a pubblicare per primo le due redazioni, solo che poi lo Stiltingh ritenne più antica la Vita II, a differenza del Bolland che propende per la Vita I. Secondo il Lanzoni, la Vita più antica deve essere assegnata alla seconda metà del IX secolo o al X, in quanto rispecchia una situazione ecclesiastica e politica ben precisa che consisteva nella conquista della Puglia da parte dell’impero di Bisanzio. Di questo vi sarebbe traccia nella Vita minor, probabilmente scritta in ambiente filobizantino. L’altra, invece, deve essere assegnata al sec. XI, poiché riflette una situazione ecclesiastica mutata: ripristino della dipendenza di Siponto da Roma, prodottasi solo dopo la cacciata dei Bizantini dalla Puglia nell’XI sec. Ar. Petrucci afferma, invece, che i due documenti dell’Apparitio e della Vita sono molto più antichi di quanto non si creda. “Una così insistente tematica antigotica, che ha tutti i requisiti dell’attualità non mi pare possa ragionevolmente attribuirsi a un testo della fine del IX secolo, come vorrebbe la moderna critica. Sembra probabilmente piuttosto che la Vitas sancti Laurentii sia un testo di propaganda filobizantina, compilato e diffuso nella Puglia settentrionale – e forse propria a Siponto – negli ultimissimi anni della guerra gotica o poco dopo la fine di essa, al duplice fine di accattivare alla dominazione greca gli animi degli indigeni e di far apparire come compiuto sotto l’usbergo dell’imperatore costantinopolitano l’istituzione del culto di San Michele sulla montagna garganica” (Petrucci 1963, p. 151). L’Apparitio, invece, per il testo letterario assai elaborato e impreziosito dal frequente uso di tutti i tipi di cursus, dovrebbe essere anteriore alla Vita e, se questa può essere collocata nel periodo finale del VI secolo, l’altro testo, il primo che ci parli del culto di S. Michele sul Gargano, dovrebbe essere di non molto anteriore. Più di recente la critica storica (Campione 1992) ha spostato la datazione della Vita minor agli inizi dell’XI secolo, mettendola in relazione con il ritorno dei Bizantini in Puglia, allorquando la chiesa sipontina riconquistò la sua autonomia da Benevento, ricevendo dai Bizantini la dignità di arcidiocesi, da loro concessa per sottrarre Siponto all’influenza longobarda; mentre la Vita maior dovrebbe risalire alla fine dell’XI secolo e rispecchia la nuova situazione venutasi a creare in Puglia con l’arrivo dei Normanni e il ripristino dei rapporti con la chiesa di Roma.

L’Apparitio consta di tre episodi: nel primo si parla di un toro smarrito e rinvenuto poi miracolosamente dal proprietario nei pressi della grotta:

“Nella città di Siponto vi era un uomo molto ricco di nome Gargano, da cui derivò in seguito il nome al Monte. Mentre il suo bestiame, di cui aveva un gran numero, pascolava qua e là sui fianchi del Monte, capitò che un toro, che si manteneva sempre in disparte, al ritorno si smarrì. Il padrone, raccolta una moltitudine di servi e cercandolo per ogni luogo poco frequentato, lo trovò alla fine sulla vetta del monte, vicino alla soglia di una spelonca. Mosso dall’ira, dato che procedeva da solo, preso l’arco, lo colpì con una freccia avvelenata. Questa, come se spinta dal vento, subito ritornò indietro, ferendolo. I cittadini, turbati e stupefatti, chiesero al vescovo in che modo la cosa sia accaduta (infatti non osavano avvicinarsi al Monte) e che cosa era necessario fare. Questi, ordinato un digiuno di tre giorni, disse che bisognava chiederlo a Dio. Condotto a termine il digiuno, il santo Arcangelo parlò in visione al Vescovo dicendo: “Avete fatto bene a interpellare Dio, dato che era necessario nascondere agli uomini il mistero di quanto è accaduto. Sappiate che ciò è dovuto alla mia volontà. Io infatti sono l’Arcangelo Michele, che sto sempre al cospetto del Signore: stabilendo di abitare in questa grotta e di conservarla sicura, ho voluto provare con questo indizio che io vedo tutte le cose che lì avvengono e che sono il custode dello stesso luogo”. Informati di questa rivelazione i cittadini presero l’abitudine di interrogare nella grotta S. Michele. Qui si potevano osservare due porte di cui soltanto quella rivolta ad Occidente, essendo la più grande e con alcuni gradini, poteva essere praticata, ma i fedeli, non osando attraversarla, vagavano ogni giorno in orazione sulla sua soglia”.

Nel secondo episodio si parla di una battaglia fra i Sipontini e i Beneventani (Longobardi) da una parte e i Napoletani (Bizantini) dall’altra, i quali vengono sconfitti grazie all’intervento miracoloso di S. Michele:

“I Napoletani, che erano ancora pagani, tentano di indurre in guerra i Sipontini e i Beneventani, quest’ultimi distanti cinquanta miglia dalla città di Siponto. Costoro ammaestrati dagli ammonimenti del custode del tempio di S. Michele (Lorenzo Maiorano), chiedono tregua per tre giorni affinché sia possibile loro implorare, con un digiuno di tre giorni, l’aiuto di S. Michele. Nello stesso tempo i pagani chiedono l’aiuto dei falsi dei con giochi scenici. Ecco che nella notte precedente il giorno della guerra, S. Michele appare in visione, e mostrandosi al custode del suo tempio, dice che le loro preghiere saranno esaudite; promette che avrebbero ottenuto la vittoria e preavvisa che bisogna assalire i nemici nella quarta ora del giorno. Dunque al mattino, lieti e certi della vittoria angelica, accompagnati dall’aiuto del Signore, i cristiani vanno incontro ai pagani: al primo assalto il Gargano è scosso da un fortissimo tremito; volano frequenti folgori e una tenebrosa caligine copre tutta la sommità del monte. I pagani fuggono, in parte respinti dal ferro dei nemici, in parte dalle frecce incendiarie; vengono inseguiti e uccisi fino a Napoli, entrando quasi moribondi nelle mura della loro città. Coloro che poi sfuggirono al pericolo, compresero che l’angelo di Dio era venuto in aiuto ai cristiani. I vincitori, tornati in patria, portando in ringraziamento voti al Signore, vedono al mattino vicino la porta settentrionale del tempio dell’Arcangelo, le orme di un uomo impresse molto profondamente nel marmo: comprendono che il Beato Michele ha voluto mostrare questo segno della sua presenza. Qui poi fu edificata la chiesa e collocato l’altare. La chiesa, per le forme delle impronte, fu chiamata Apodonea”.

Nel terzo episodio si fa riferimento alla dedicazione del santuario da parte del vescovo e del popolo sipontino, dopo ripetute apparizioni di S. Michele:

“Frattanto i Sipontini erano in dubbio se dovessero entrare nella Grotta non ancora consacrata. Tuttavia, fatta una colletta di denaro, essi costruirono, ad Oriente della Grotta, la chiesa del Beato Pietro, capo degli Apostoli: in essa innalzarono anche gli altari della Beata Maria sempre Vergine e di S. Giovanni Battista. Alla fine il custode del tempio, trovata una saggia decisione, interroga, per mezzo dei messaggeri, il Vescovo Romano. Questi, allora, si trovava sul monte che dista cinquanta miglia dalla città romana, e che gli abitanti chiamano S. Silvestro, per il fatto che lo stesso un tempo era andato là in esilio a causa delle persecuzioni. Il Papa, dopo aver ascoltato i messaggeri, manda questi ordini: “Se quella basilica la deve dedicare un uomo, bisogna farlo nel giorno in cui fu consacrata la vittoria, se invece al Santo Protettore del Luogo, S. Michele, piace fare diversamente, Lo si interpelli pure. Intanto nel tempo dovuto, si faccia un digiuno di tre giorni con tutti i cittadini, pregando la Santa Trinità affinché conduca a sicuro termine il nostro proposito”. Fu fatto come aveva consigliato il Vescovo di Roma. Nell’ultima notte in cui fu stabilito il digiuno, Michele, Angelo del Signore, apparendo in visione al vescovo sipontino, disse tali parole: “Non è necessario per voi dedicare questa chiesa che ho edificato. Infatti entrate soltanto, ed essendo io presente come patrono, andate a celebrare lì la S. Messa; spetterà a me poi mostrare in che modo abbia consacrato da me stesso quel luogo”. Il mattino vengono con le offerte e pregando molto, entrano attraverso la porta occidentale. Ed ecco appare un lungo porticato rivolto verso aquilone e che toccava una piccola porta posteriore, oltre la quale vi erano le orme impresse nel marmo. Ma prima che si giunga qui, appare una basilica molto grande rivolta ad Oriente, alla quale si accede mediante dei gradini. Questa, con il suo porticato, sembrava poter contenere circa cinquecento uomini, e mostrava, quasi al centro della parete, un venerabile altare, coperto da un piccolo pallio rosso. La stessa era un’abitazione tortuosa, non a guisa di un’opera umana con le pareti scoscese, e spesso rese ineguali da rocce sporgenti. Sul vertice roccioso, ad altezza diversa, qualche punto si toccava con la testa, qualche altro si poteva toccare a stento con la mano. La cima esterna del monte, in parte è coperta da una selva di corniolo, in parte si distende in una verde pianura. Compiuta la celebrazione della Messa, presi da grande gioia, tutti ritornarono alle proprie abitazioni. Il Vescovo, poi, incaricato un gruppo di ministri, di cantori e di sacerdoti e costruito un alloggio, ordinò che lì si celebrasse ogni giorno tutto il corso dei Salmi e delle Messe in ordine conveniente. Nessuno, poi, osò entrare nella Basilica di notte. Solo al mattino, dopo essere trascorsa l’aurora, si iniziano gli inni a Dio e all’Arcangelo. Dalla roccia, su cui si trova il sacro tempio, presso l’altare, rivolto ad Aquilone, scorre giù, a goccia a goccia, un’acqua dolce e molto limpida, che gli abitanti chiamano stilla. Un vaso di vetro preparato per raccogliere quest’acqua è tenuto appeso da una catena di argento; ed è usanza, comunicato il popolo, che tutti accedano a questo vaso per mezzo di gradini e gustino il dono del liquido divino; infatti è dolce a gustarsi e salubre a toccarsi. Alcuni, poi, dopo lunghe e forti febbri, bevuta quest’acqua, subito avvertono un improvviso miglioramento della loro salute. Anche in altri innumerevoli modi lì di continuo vengono guariti gli ammalati e ciò è dovuto alla potenza dell’Arcangelo Michele”.

Questi episodi probabilmente non hanno alcuna consequenzialità storica, anche perché si presuppone che l’Apparitio sia stata scritta in diverse situazioni storiche sulla base di una evidente documentazione liturgica altomedievale che fa propri numerosi elementi da atti di martiri, vitae, passiones e apparitiones di Santi. Ma quello che è più strano è che l’Apparitio non fa alcun riferimento a situazioni e avvenimenti precisi ed espliciti, né indica personaggi storici certi e databili agiograficamente. Per esempio è sintomatico che in nessun passo dell’Apparitio ricorra il nome del vescovo sipontino, né che si faccia riferimento ad altri personaggi di epoche ben individuabili. Ciò ha presupposto una oscillazione temporale fra i diversi avvenimenti narrati e quindi una interpretazione soggettiva e a volte ipotetica. Per esempio l’episodio del toro verrebbe ad essere inquadrato in quel periodo di transizione del Gargano da una fase tardoromana e quindi paganeggiante, ad una fase di sviluppo e diffusione del cristianesimo sul Gargano. Fase che vede nel culto di S. Michele, di origine sicuramente orientale, elementi che segnano il passaggio definitivo dei garganici dal paganesimo al cristianesimo. Ciò ha fatto supporre al Bronzini che nel culto di S. Michele c’è da notare alcuni elementi demologici, in rapporto alla stratificazione dei miti garganici, con riferimento proprio alla civiltà agricolo-pastorale della zona. Il racconto del ritrovamento del toro da parte di un ricco signore sipontino (Gargano), afferma il Bronzini, “segna il momento in cui il cristianesimo sconfigge e sostituisce il paganesimo rappresentato da Gargano e fino ad allora dominante sulla Montagna” (Bronzini 1968, p. 94; Trotta 2001). Nel personaggio di Gargano, continua il Bronzini, c’è la personificazione di un eroe eponimo, che incarna alcune caratteristiche proprie della società pagana agricola e pastorale. Infatti, nell’episodio del toro, Gargano è visto come un uomo ricco e potente, proprietario di una grande moltitudine di capi di bestiame e con numerosi servi a disposizione, tanto da determinare una sua personificazione ideale con un eroe mitico e quindi quasi una identificazione con la divinità. Tutto ciò porta a considerare che il culto di S. Michele nasce da un substrato mitologico in cui i personaggi della leggenda hanno ancora delle personificazioni mitiche. Infatti, molti elementi della leggenda garganica trovano esplicito riferimento nella mitologia greca: la freccia che ritorna indietro, trova corrispondenza nella mitologia diomedea, cioè delle pietre che ritornano spontaneamente dal fondo marino nella loro sede originale; il toro che si inginocchia davanti alla grotta, trova corrispondenza nell’episodio vetorotestamentario dell’asina di Balaam che si blocca davanti all’Angelo; la facoltà dell’acqua terapeutica, presente nei santuari greci di Asclepio e Podalirio, la ritroviamo identica nella “stilla” garganica, tanto da testimoniare, almeno nel primo periodo della storia del santuario garganico, l’originaria funzione iatrica e naturale del culto micaelico; e, inoltre, la pratica dell’incubatio, il cui rito, frequente nei santuari greci, viene messo in risalto dal vescovo sipontino, allorquando questi, in seguito alle visioni avute in sogno, dà disposizioni ai fedeli per la consacrazione della grotta all’Arcangelo Michele.

Tutte queste analogie hanno fatto ipotizzare una continuità di tradizioni cultuali fortemente radicate nella regione garganica: tradizioni riscontrabili nel racconto che si fa nell’Apparitio, il cui autore, certamente, ha desunto dalla descrizione di antiche leggende locali. Infatti, oggi, a differenza di alcune decenni fa, è possibile ipotizzare, anche attraverso i risultati degli scavi effettuati nella grotta, una continuità di frequentazione degli ambienti dall’età tardoantica all’età longobarda. A tale riguardo, se analizziamo il testo dell’Apparitio, vediamo che la grotta era frequentata già prima che sorgesse il culto micaelico, con strutture ben precise tali da far pensare ad un vero e proprio santuario. Infatti nel momento in cui i sipontini andarono a conoscere il luogo dell’evento, essi notarono all’imbocco della caverna due ingressi, dei quali uno rivolto a mezzogiorno, che poi era quello principale che poteva essere raggiunto mediante alcuni gradini che guardavano ad occidente, e un altro ingresso rivolto ad oriente. Quando poi al momento della consacrazione della grotta i sipontini, insieme al vescovo, dopo aver varcato la porta principale, apparve un lungo porticato che si sviluppava verso aquilone, e che conduceva all’interno della grotta dove su un sasso erano impresse delle orme di piede. Quindi probabilmente la grotta era frequentata già prima che vi sorgesse il culto micaelico con alcuni ambienti già definiti. Ciò potrebbe avvallare l’ipotesi di una frequentazione degli ambienti già nei primi secoli dell’era cristiana, con la presenza di popolazioni di origine orientale provenienti dall’Asia Minore, probabilmente ebrei o giudeo-cristiani, e dall’Africa settentrionale, queste ultime giunte al seguito delle invasioni vandaliche (Fischetti 1977).

Nel secondo episodio narrato nell’Apparitio si fa riferimento ad una guerra che i Napoletani (Bizantini), definiti pagani, muovono ai Beneventani (Longobardi) alleati con i Sipontini. L’episodio ha fatto sorgere diverse ipotesi riguardanti la ricostruzione storica dell’avvenimento. C. Troya sostiene che l’episodio dell’Apparitio è da mettere in rapporto con una sconfitta subita dai Greci di Anastasio nel 493 ad opera dei Sipontini. Ipotesi che viene accreditata presso C. Angelillis che ritiene la vittoria merito dei Sipontini nella guerra tra gli Eruli di Odoacre e i Goti di Teodorico, per i quali avrebbero parteggiato i Sipontini. Tuttavia vi sono altri studiosi che tentano di spostare la data della battaglia dopo Gelasio I. Per esempio il bollandista Stiltingh pensa che l’episodio bellico in questione possa riflettere una fase della guerra greco-gotica (535-553). Per il Lanzoni la battaglia riportata tanto dall’Apparitio quanto dalla Vita viene ad essere “l’eco svisata e contraffatta di un episodio storico, narrato da Paolo Diacono, accaduto nel 647 circa, durante la guerra tra Grimoaldo, duca di Benevento, e i greci sbarcati in Italia sotto la condotta dell’imperatore Costante” (Lanzoni 1923). Secondo Ar. Petrucci, invece, “l’episodio della battaglia fra i Napoletani paganis adhunc ritibus aberrantes e i Sipontini potrebbe assai bene riferirsi ad un attacco dei Goti del Totila – magari alla stessa incursione del 547 cui fa riferimento la Vita sancti Laurentii – i quali nel 543 avevano occupato Napoli, massima città dell’Italia meridionale, e ne avevano fatto un loro stabile centro di resistenza e di espansione” (Petrucci 1963, p. 152). Secondo G. Otranto, invece, gli avvenimenti narrati nell’Apparitio sono da mettere in relazione con gli stretti legami intercorsi, a partire dalla metà del VII secolo, tra il santuario garganico e i Longobardi del Ducato di Benevento. Ciò anche alla luce delle recenti indagini archelogico-documentarie relative alle cripte longobarde del santuario e al corpus di iscrizioni cristiane altomedievali. “Le nuove acquisizioni, afferma G. Otranto, lungi dall’essere definitive, consentono, e ancora più stimolano, una revisione critica dei dati tradizionali elaborati dalla precedente storiografia. Ne emergono talvolta ribaltamenti, talaltra conferme di vecchie soluzioni, ipotesi e intuizioni, talaltra, infine, aspetti che pongono in una nuova luce la storia del santuario garganico che dalla metà del VII secolo appare intimamente connessa con alcune vicende che interessarono i Longobardi del Ducato di Benevento” (Otranto 1983, p. 211). Secondo Otranto “la prima occasione nella quale Beneventani e Sipontini sono impegnati gli uni accanto agli altri contro un nemico comune è certamente costituita dall’attacco che i Bizantini attorno al 650, portarono “ut oraculum Sancti Archangeli in monte Gargano situm depraedarent”: in aiuto dei Sipontini accorse il longobardo Grimoaldo I, duca di Benevento (647-671), che riuscì a sventare l’attacco dei Greci dando inizio ad un lungo periodo di solidarietà e di alleanza tra Sipontini e Beneventani” (Otranto 1983, p. 225). Le motivazioni che spinsero i Bizantini a compiere una spedizione sul Gargano sono probabilmente di ordine politico e religioso, in quanto i Longobardi del ducato di Benevento stavano progressivamente espandendo il loro dominio nella Puglia settentrionale. I Bizantini cercarono quindi di riprendere il possesso della regione, riaffermando così la propria egemonia sulla regione garganica. Quindi la battaglia che avvenne fra Bizantini e Longobardi era finalizzata alla riconquista della regione. La vittoria riportata da Grimoaldo I sancì definitivamente la supremazia dei Longobardi sulla Puglia settentrionale, di cui il santuario garganico era l’emblema più importante da un punto di vista religioso ma anche politico. In seguito, il nuovo stato dei rapporti tra Benevento e Siponto doveva essere sancito nel 663 allorché Barbato, vescovo di Benevento, chiese ed ottenne da Grimoaldo la propria giurisdizione sulla chiesa garganica. Quindi fu proprio l’episodio del Gargano a segnare l’inizio di quel singolare legame tra monarchia longobarda e culto micaelico che Grimoaldo, soprattutto dopo l’ascesa al trono (662), rese sempre più stabile e profondo, favorendo con iniziative diverse la venerazione dell’Arcangelo nei confini del Regno. Tutto ciò oggi è provato dalle numerose iscrizioni incise sulle strutture del santuario garganico. Quindi l’episodio dell’Apparitio, sembra essere l’antefatto storico e culturale di una serie di eventi e di dati che interessano la presenza longobarda prima nel Ducato di Benevento e successivamente in tutto il Regno. Tutto ciò, secondo G. Otranto, fa pensare che l’Apparitio, “nella sua stesura attuale, sia stata prodotta in ambienti longobardi o, per lo meno, rielaborata in tali ambienti per tentare di longobardizzare anche le origini del culto micaelico sul promontorio garganico”. Anzi, più specificatamente, afferma G. Otranto, nell’Apparitio “si intravedono due stadi redazionali: il più antico riflette la fase iniziale della storia del culto dell’Angelo sul Gargano (V-VI secolo), (probabilmente riferita ad una operetta (libellus) del VI secolo), in cui sono messi in risalto l’arrivo del culto stesso, adombrato nel primo episodio, quello del toro, la consacrazione della basilica, fatta direttamente dall’Angelo (terzo episodio), e i riferimenti alle guarigioni operate dal Santo con l’acqua che sgorgava dalla roccia all’interno della grotta” (Otranto 1990, p. 15). Il secondo stadio redazionale riporta all’epoca successiva, a dopo cioè che i Longobardi di Benevento, sconfiggendo nel 650 i Bizantini (l’episodio della Vittoria), si impadronirono del santuario, fecero eseguire alcuni lavori di ristrutturazione al suo interno e unificarono le diocesi di Benevento e Siponto sotto la giurisdizione di un solo vescovo. In definitiva l’anonimo autore fonde nel racconto notizie riguardanti le origini del culto micaelico sul Gargano con elementi e motivi maturati nei secoli VII e VIII.

Nel terzo episodio, in cui si parla della Dedicazione della grotta a S. Michele, viene posto il problema della Consacrazione al culto micaelico della grotta, con tutta la problematica della trasformazione del luogo a culto cristiano. Ed infatti nell’Apparitio si parla di un luogo già adibito a culto, dove si entrava da una porta posta ad occidente. Tale grotta, da quanto si legge nell’Apparitio si trovava sulla sommità di un alto monte (vertice siquidem montis excelsi posita), la cui cima, dalla parte esterna della caverna, era coperta in gran parte da una selva di cornioli, immersa in un verdeggiante pianoro (Vertex vero montis extrinsecus partim cornea silva tegitur, partim virenti planitiae delatatur). L’anonimo autore dell’Apparitio, nel descrivere il santuario garganico, si sofferma molto sulle caratteristiche naturali e sul paesaggio circostante. Infatti parla di spelunca, domus angulosa, crypta, con le pareti erette non secondo la consuetudine degli uomini, ma irte di sporgenze e di rientranze, con la volta rocciosa irregolare, che in qualche punto si sfiora con la testa, in qualche altro a mala pena si tocca con le mani. Evidentemente la tradizione che voleva i monti come luoghi vicino a Dio, (vedi i numerosi monti biblici dedicati a Dio: Ararat, il monte di Noè e del diluvio; Moriah, il monte di Abramo; Sinai, il monte di Mosè; Monte Nebo, dove morì Mosè; il Carmelo, il monte di Elia; Sion, il monte di Davide, ecc.) ha interessato, come vedremo in seguito, anche il culto di S. Michele, i cui santuari sorgeranno generalmente in località montane, le quali sono evidentemente più idonee a mediare il contatto con il divino. D’altra parte la scelta della consacrazione del luogo, dove sarebbe sorto il culto di S. Michele e il suo santuario, fu una scelta non determinata dall’uomo ma dall’Arcangelo, il quale da sé consacrò la grotta, sua dimora terrena, al fine di garantire il contato quanto più vicino a Dio. Del resto la maggior parte dei culti pagani sorti sul Gargano, erano in zone montane, in caverne ritenute luogo privilegiato dell’incontro fra l’uomo e il divino. Infatti, la grotta, da un punto di vista simbolico, è riconducibile, da una parte alla profondità della terra e dall’altra è assimilabile al cielo, che è la dimora ideale dell’Arcangelo.

Quando i Sipontini giunsero con le loro offerte all’imbocco della grotta, dopo aver salito l’aspro monte, circondato da verdeggianti boschi, (il famoso nemus garganicum di memoria oraziana), dopo aver varcato la porta principale, ecco apparire, come dicemmo, un lungo porticato che si sviluppava verso aquilone e giungeva a toccare quella porta, oltre la quale erano impresse le orme nel sasso. E’ il tipico racconto della fondazione dei santuari altomedievali, le cui origini sono legate generalmente ad eventi miracolosi, ad apparitiones e ad avvenimenti escatologici. Inoltre, il racconto è quello tipico del genere agiografico, dove abbondano gli elementi miracolistici al di là dei quali si possono cogliere, a fatica, alcuni motivi storici, come quelli riguardanti la battaglia fra i longobardi beneventano-sipontini e i bizantini del VI secolo. Così una volta che l’Arcangelo Michele penetrò nella devozione popolare e fece della grotta un santuario di rinomanza regionale e successivamente nazionale, il Gargano divenne un centro di grande spiritualità, tanto da essere conteso da vari popoli (Bizantini, Longobardi, Franchi, Normanni, Angioini, Aragonesi) che in seguito si disputarono il dominio sulla Puglia e sull’intero Mezzogiorno d’Italia.

Studio di Giuseppe Piemontese pubblicato sul portale newsgargano.it

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