di Michele Illiceto
Che cosa metteresti nel tuo presepe quest’anno?
Forse la bontà che vince il cinismo. Non però quella di occasione o di facciata, ma quella umile e silenziosa, che non fa rumore e fugge ogni tentazione di visibilità e di ostentazione. La bontà preventiva che non costa alcuna terapia. Non quella riparatrice che serve solo a consolare le coscienze disorientate. Non la bontà che vuole salvare, e che per farlo si irrigidisce esponendosi al rischio del dogmatismo e dell’arroganza, ma quella che vuole trafiggere l’inerzia e l’indifferenza, e che per questo resiste ad ogni forma di incomprensione. La bontà che spoglia anche la falsa umiltà del male travestito di verità.
Al posto delle pie intenzioni che servono solo a chi le ha, metterei le sane responsabilità e con esse l’attaccamento al tempo presente, perché ciascuno risponda sia di sé che degli altri. Senza fughe né omertà. Le responsabilità educative e affettive, quelle sociali e quelle politiche. Non metterei solo la legalità, perché da sola non basta, ma vorrei che ci fosse una sana moralità. Toglierei i comandamenti e metterei l’unica legge che davvero conta e che li comprende tutti: quella dell’amore che a Betlemme ha preso la forma umana di un bambino deposto in una mangiatoia.
Metterei il presente con la sua disperazione e con le sue depressioni, perché il lieve tepore della paglia sciolga i nodi imbrigliati della banalità e della stupidità di chi pensa che il mondo abbia la misura del proprio ombelico. Il presente con le sue paure e le sue incertezze, perché Maria, alla quale è stato detto “Non temere”, ci indichi la via per farci uscire da noi stessi e osare il coraggio delle cose nuove .
Metterei un coscienza critica che sia in grado di risvegliarci da quel torpore che ci vede appiattiti al già dato e al già visto e consumato. Metterei la sana indignazione che non ci fa accontentare delle cose che vanno bene solo per noi. Metterei i colori delle varie etnie per dire che le razze non esistono, e che i confini sono solo false rappresentazioni con cui avere la scusa per dire che a Betlemme c’eravamo solo noi.
Metterei la ricchezza e l’opulenza nell’involucro fragile della povertà di Maria e Giuseppe, per poterle ripulire da tutte quelle molteplici ingiustizie che, giustificandole, le producono. Per rimandare i ricchi a mani vuote e ricolmare di beni gli affamati. Metterei la sterile che ha partorito sette volte, l’orfano e la vedova perché Dio che si fa uomo è il Dio degli ultimi, il quale in cerca di un albergo a cinque stelle ha trovato solo una stalla dove porre la sua tenda.
Consegnerei i nostri giorni alla loro provvisorietà per ridare respiro ad una eternità soltanto agognata ma per niente creduta. Prenderei la forza dei potenti e la metterei tra le braccia della debolezza che in quel bambino dei potenti fa bottino, per innalzare gli umili e rovesciare i vari tipi di potere. E se nel nulla della culla il Verbo si fa tutto ciò che è possibile avere, allora è da Betlemme che viene una nuova idea di ricchezza che sostituisce il dare al solo avere.
Poi metterei i sogni, e con essi il futuro. Non quello che nasce dalla competizione ma quello che nasce dalla cooperazione. Non quello che nasce dalla pianificazione ma quello che nasce dalla faticosa gestazione. Non quello prospettato dai mercati che fanno previsioni catastrofiche o pianificano le nostre vite solo in rapporto al Pil, ma il futuro fatto di progetti faticosi e laboriosi, che danno valore al sudore delle mani e della fronte piuttosto che alle scorciatoie prospettate dai giochi finanziari che speculano su ricchezze soltanto virtuali.
Non il futuro che ci minaccia, ma quello che incoraggia. Non quello che ci fa scontrare e litigare, ma quello che ci fa dialogare. Non certo il futuro impossibile, aleatorio, privilegio dei soliti pochi, che furbescamente sanno sempre cavarsela facendo pagare agli altri il prezzo delle loro scalate, ma quello fattibile, che è a portata di tutti, con gesti semplici. Non quello delle grandi cavalcate da parte di pochi eroi, ma quello fatto di piccoli passi, sia individuali che comunitari, che sappia ridare valore alla ferialità della vita. Alla sua lentezza e ai suoi ritardi. Alle sue cadute e ai suoi rimandi.
Non il futuro deciso da chi ha il potere di abusare delle parole, o che sa manipolare le coscienze giocando con le idee senza che siano mai vere, ma da chi in quel futuro ci deve andare pagando sulla propria pelle il costo degli innumerevoli rinvii.
Con i sogni metterei nel presepe i desideri che ci fanno fare memoria di alterità maturate altrove. Veri depositi di debiti simbolici che rompono le nostre autoreferenzialità presuntuose e ibride. Toglierei il narcisismo dei bisogni che ci fa prigionieri di specchi ormai opacizzati. Specchi ingombranti di identità sedimentate nel culto del proprio ego.
Toglierei i capricci che si soddisfano solo attraver5so godimenti illimitati con forme di sazietà seriali. Con divertimenti che fanno il vuoto dentro e fuori. Al loro posto metterei gli aneliti che ci rendono sanamente inquieti per una fame che non distrugge, ma che s’accontenta del giusto e del dovuto. Che sa quando dire basta per passare il testimone ad altri che come noi hanno uno stomaco e delle gambe.
Metterei la creatività e toglierei tutte le rigidità. Per dare più spazio ai processi che alle strutture, più alle persone che alle cose, più ai volti e ai corpi che ai conti e ai simulacri. Per fare entrare le utopie rimosse, per rimettere in cammino i morti, e fare della grotta di Betlemme l’anticipo del sepolcro vuoto che ridona luce alle ombre che ci paralizzano. Per fare del Natale un evento di Resurrezione. Apoteosi di un principio che ritorna. Che sovverte, facendo nascere il nuovo nel cuore delle stesse cose che non sanno più meravigliarci.
Inoltre metterei quella sana lotta che rovescia le gerarchie e gli ordini costituiti, che fa tremare i polsi ai potenti da rovesciare con la forza delle idee e delle parole nuove. Toglierei la pace falsa di chi si sente arrivato, di chi vuole mantenere lo status quo per non perdere la presa su ciò che ha accumulato. E al posto del facile godimento metterei la gioia, anche se a volte costa qualche piccola rinuncia.
Metterei l’innocenza dei bambini che chiedono adulti capaci di essere tali. Non per essere adorati, ma solo amati. Per essere trattati come una provocazione della vita che ci chiede di testimoniare una eredità che dobbiamo imparare a saper dare.
Darei lo scettro all’asinello, che sa unire la mitezza alla caparbietà. L’attesa alla speranza. La ricerca alla vigilanza. Mentre lascerei la parola ben volentieri al bue con il suo ruminare pensieri nascosti e dimenticati ci invita tutti a fermarci un attimo e a contare le stelle se ci riesce. Per abitare le distanze. Per aprire le porte e trasformarle in soglie, in crocevia di volti che parlano ciascuno il linguaggio dell’Altrove.
E poichè non ci riusciremo, ricominceremo dai nostri limiti. Non per far cadere le stelle, ma per elevarci fino ad esse facendole nascere dentro di noi. Cominceremo dalle nostre ferite. Dalla nostra comune povertà che a Betlemme è stata visitata e colmata da una ricchezza di cui noi non siamo per nulla padroni e per nulla meritevoli. E che, proprio per questo, si chiama forse Divinità.