Da quattro anni Beatrice passa le sue giornate ad accudire Livio, il marito malato di Alzheimer. Da quando lui non la riconosce più, però, lei vive in un limbo da cui non sa uscire: da una parte vorrebbe ancora stargli vicino, dall’altra vorrebbe gettare la spugna e rifarsi una vita. Un giorno la proprietaria di una casa in Liguria, che Livio utilizzava quando esercitava la sua professione di medico fuori Milano, la contatta per consegnarle alcune cose lasciate nell’appartamento. Con quel pacco, Beatrice aprirà il baratro delle domande senza risposta. Per continuare a vivere, quindi, dovrà trovare la forza di compiere l’atto più coraggioso che si possa chiedere a una donna ancora innamorata.
L’autore:
Alessandro Aino è nato nel 1988. Vive a Milano e lavora nel mondo della comunicazione.
Finché memoria non vi separi è il suo primo romanzo.
Ecco le parole di alessando: Ho scritto un libro. Pubblico un libro.
Tra queste due frasi sono passati più o meno dieci anni.
Come forse qualcuno di voi saprà, dieci anni fa – più o meno – ho scritto il mio primo libro. Si chiamava Ninni Pinchiorri.
L’ho scritto, l’ho mandato al Premio Calvino, ma niente.
Allora ho preso i consigli della scheda di lettura del Premio Calvino e ci ho rimesso mano.
L’ho riscritto, l’ho mandato ad alcune case editrici, ma niente.
E così ho scritto un secondo libro. Si chiamava Finché Memoria non vi Separi.
Questo l’ho mandato direttamente alle case editrici, ma anche qui niente.
Allora ho preso la struttura del primo libro, ho preso il titolo del secondo libro e ci ho messo dentro una trama nuova.
E così ho scritto un terzo libro che si chiama sempre Finché Memoria non Vi Separi ma non è quel Finché Memoria non vi Separi.
Questo non l’ho mandato né al Premio Calvino e nemmeno alle case editrici, l’ho mandato a una importante agente letteraria.
Le è piaciuto.
Le è piaciuto, sì, ma non abbastanza da propormi un contratto.
“È un buon libro”, mi ha detto, però non mi ha proposto un contratto.
E allora l’ho mandato io, alle case editrici.
Come forse pochi di voi sapranno, se c’era una cosa che davvero, con tutto me stesso, avrei voluto fare nella vita, questa cosa è: lo scrittore.
Ora che finalmente un libro lo pubblico, io, lo scrittore, non è che forse lo voglio fare più.
La pubblicazione di questo libro ha più a che fare col togliersi un peso che con la voglia di fare un qualcosa che non so neanche più se ho voglia di fare.
Perché io, uno scrittore, forse, non lo diventerò mai.
Arriva un momento in cui devi ammettere che non sei così bravo nel fare le cose che ti piacerebbe fare.
Arriva un momento in cui devi fare i conti con la triste realtà che quello che ti piacerebbe fare, quello che ti renderebbe felice, non potrai mai farlo. Potrai continuare a farlo per te, per il tuo diletto, ma non come lavoro, non come qualcosa che può diventare la tua vita. Qualcosa da scrivere sulla carta di identità.
E, io, a questi conti con la triste realtà, ci sono arrivato tardi.
Non ho mai creduto nel genio puro, quello della sregolatezza. Né al talento innato. Ho sempre creduto alla perseveranza. Al lento, tutt’altro che romantico sforzo quotidiano. Quello fastidioso. Quello quasi cristiano della sofferenza prima della vetta, del dolore prima della pace eterna.
E così, quando ti accorgi di non avere quel talento innato – perché non ci credi, a quel talento – ti accorgi anche che per fare qualcosa devi impegnarti in maniera ossessiva.
E l’impegno ossessivo ha bisogno di tempo.
E, a un certo punto, quel tempo, non ce l’ho avuto più. O forse ho smesso di ricercarlo.
Perché nel frattempo c’è stato lo studio, l’università, poi il lavoro, poi un lavoro migliore, un contratto migliore.
Tutte cose che non ho mai avuto voglia di fare ma che dovevo fare perché è così che va la vita, no? E allora il tempo per impegnarmi con tutto me stesso a diventare uno scrittore è scomparso.
E avrei potuto farlo la sera, quando tornavo a casa, ma ero stanco. E poi volevo vedere un film, leggere un libro, ascoltare un disco che magari mi avesse fatto tornare la voglia – o l’ispirazione – di scrivere.
Ma poi, nel frattempo, la vita è continuata ad andare avanti finché un giorno non mi sono ritrovato a essere ciò che faccio. Quello che, mi ero sempre detto, non sarei mai diventato.
“Tu non sei le cose che fai, tu non sei il lavoro che fai”, mi ero sempre ripetuto.
E quello che volevo davvero fare è diventato un ricordo. Un’occasione sprecata. Un tempo andato.
Ed è per questo che, forse, pubblicare un libro, per me, ha più a che fare col togliersi un peso che col provare a diventare, davvero, uno scrittore.
Perché se non avessi mai pubblicato un libro mi sarebbe rimasto quel fastidioso ma comunque rassicurante dubbio che forse-forse, se ci avessi davvero provato, ci sarei riuscito. Il rimorso, sì, il rimpianto, sì, ma anche la rassicurazione di un qualcosa mai realmente perseguito.
E invece, così, una risposta l’ho trovata.
Una risposta che era diventato solo un peso.
Ed è per questo che ho scritto un libro e, dopo dieci anni, pubblico un libro.