00:00:00
23 Nov

Consegnato dell’importante riconoscimento alla memoria. A ritirare la medaglia, in prefettura, i figli Rocco Petrella e Teresa Ruberto

Questa mattina, la cerimonia di consegna dell’importante riconoscimento alla memoria. A ritirare la medaglia, in prefettura, i figli Rocco Petrella e Teresa Ruberto: “Una grande emozione”

27 gennaio 2021 Maria Grazia Frisaldi

La medaglia tra le mani brilla come i loro occhi lucidi. Questa mattina, per un attimo, Teresa Ruberto e Rocco Petrella hanno indossato gli abiti dei rispettivi padri, Giuseppe Ruberto e Antonio Petrella, immaginandone i passi dolorosi dell’esperienza della deportazione.

A loro, in questa data simbolo, la Presidenza della Repubblica Italiana ha concesso la medaglia d’onore, importante onorificenza che viene assegnata alla memoria dei cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti. La cerimonia di consegna si è tenuta in forma strettamente privata (a causa delle rigide restrizioni per l’emergenza sanitaria da Covid-19) in prefettura. Sono i figli a raccogliere quella pesante eredità, di cui i loro padri non parlavano mai. Dopo la loro morte, entrambi hanno ricostruito a ritroso le tappe di quei lunghi mesi di prigionia, mettendone insieme i pezzi grazie a documenti – foglio matricolare, cartoline, relazioni e lettere scritte di proprio pugno – custoditi gelosamente.

“E’ un riconoscimento molto importante per noi figli e per i nipoti, ai quali io ho trasmesso questa Antonio Petrella-2storia”, spiega a FoggiaToday Rocco Petrella. La medaglia che stringe tra mani è alla memoria di suo padre, Antonio Petrella (nella foto accanto), di Deliceto. Per un anno e 11 mesi il suo nome è stato un numero: prigioniero 277658. Nato nel 1915 era un ragazzo quando tutto ebbe inizio: “Era inquadrato come infermiere quando nel 1936 fu assegnato alla IX Compagnia di Sanità e distaccato all’Ospedale Militare di Chieti per la leva”, racconta il figlio. “Il 19 maggio del 1940 fu richiamato alle armi e il 2 giugno partì da Brindisi con la 32^ Sezione Disinfezione per Rodi Egeo, dove sbarcò il 6 giugno del 1940”.

Il resto, purtroppo, è storia: “Dal settembre del ‘43 fino a quando non fu liberato dagli americani, fu deportato in Germania, dove rifiutò ogni forma di collaborazione”. Qui la vicenda è stata ricostruita sulla scorta delle cartoline che Antonio inviata, sporadicamente, alla famiglia. Brevi scritti in cui, per passare il regime di censura, era costretto a dichiarare di star bene. “Ma la realtà era ben diversa e lo si leggeva tra le righe”, spiega Rocco. “In tanti, come mio padre, furono definiti Imi – Internati Militari Italiani, una definizione che aggirava la Convezione di Ginevra e legava le mani alla Croce Rossa che non poteva offrire alcuna tutela”.

Oschatz, Wurzen, Dresden e Aushlitzer Strabe furono le sue tappe dell’orrore, fino alla liberazione avvenuta il 5 maggio del 1945. Ma l’incubo non finì in quel momento. “Ci vollero 4 mesi per ritornare a casa. Una marcia estenuante, fatta di stenti e sofferenze: al suo arrivo – continua Petrella – nemmeno la madre lo riconobbe tanto precarie erano le sue condizioni. Un uomo nel fiore degli anni ridotto a 40 kg di pelle e ossa, o poco più”. Di quell’esperienza Antonio, che a Deliceto ha iniziato a fare l’agricoltore e ha costruito la sua famiglia, non volle mai parlare.

“Ha sempre scelto il silenzio per non rivivere l’incubo di quelle sofferenze. Quello che ha passato lo possiamo solo immaginare”, conclude Rocco che ha ritirato l’onorificenza insieme al figlio Antonio, che di quel nonno, venuto a mancare nell’estate del 1985, porta il nome. “E’ stato un padre attento e premuroso, una persona onesta e decisa. Ci ha trasmesso valori importanti. Sicuramente quell’esperienza lo ha reso molto più forte. Non so come avrebbe reagito oggi dinanzi a questa onorificenza”, conclude.

Le emozioni del momento sono tante. E le condivide con Teresa Ruberto, di San Giovanni Rotondo. Giuseppe Ruberto-2E’ la seconda dei cinque figli di Giuseppe Ruberto (nella foto accanto), classe 1903. Lei è segno tangibile della rinascita, nata dopo l’orrore della guerra e della deportazione. Ed è stata lei a ritirare la medaglia d’onore per il papà Giuseppe. Laureato in farmacia e specializzato nel ramo chimico, Giuseppe venne richiamato alle armi. Nominato capitano, nel 1943 partì alla volta di Rodi Egeo con il 55° raggruppamento chimico-sanitario.

“In mare subirono un grave bombardamento: due dei tre sommergibili attaccati affondano, lui era nel terzo e riuscì a scampare alla morte. Successivamente venne deportato in Germania, nel campo di Zwaiglanger, con la matricola 104870”, racconta Teresa, che ne ha ricostruito la storia soprattutto grazie ad un memoriale scritto di suo pugno.

“Per le sue competenze in ambito chimico, venne mandato in un’industria chimica della Bayer, ma lui rifiutò categoricamente per il ‘trattamento bestiale’ riservato ai prigionieri, e venne quindi trasferito nel campo di Forellenkrust. Qui fu anche peggio perchè pagò lo scotto della disubbidienza”, continua.

Solo l’incontro fortuito con un compaesano, il soldato semplice Michele Belvito, lo salvò: gli passava di nascosto parte del suo rancio, si sostenevano a vicenda e divennero amici. Ma non fu quello l’unico gesto di umanità ricevuto da Giuseppe nell’inferno della deportazione. “All’arrivo degli americani, mio padre voleva inviare una lettera a mia madre per farle sapere che era ancora in vita. Per fare ciò, un soldato prese la lettera e la spedì ai suoi genitori in Massachusetts chiedendo loro di spedirla a mia madre”. Quella lettera, recapitata a giugno del 1945, fece il giro del mondo per consegnare alla storia un sentimento dirompente: “Sono libero dal giorno cinque di aprile. La mia gioia è immane”, si legge.

Ritornato a casa, dopo una ‘sosta tecnica’ a Foggia per rimettersi in sesto e cercare di apparire al meglio nascondendo i segni della deportazione, Giuseppe riprese in mano la sua vita, prima come insegnante di chimica all’istituto magistrale cittadino, poi come presidente della BCC di San Giovanni Rotondo, carica che mantenne fino alla morte. “Di quell’esperienza non ha mai voluto parlare, né con me, né con nessun altro”, spiega Teresa. “Difficile immaginare la sua reazione oggi: era un uomo molto colto e disponibile, ma estremamente riservato e schivo. Nonostante ciò sono sicura che ne sarà orgoglioso

Fonte Foggiatoday

Da altre categorie