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22 Nov

23 ottobre 1860: la reazione borbonica di San Giovanni Rotondo

 

Pubblichiamo, tratta dal sito padrepioesangiovannirotondo.it, la relazione di Giulio Giovanni Siena dettata nella Conferenza svoltasi sul tema nel chiostro del Palazzo Municipale di San Giovanni Rotondo il 1° giugno 2004.

Indubbiamente nel mese di ottobre 1860 la nostra città, che allora contava circa 6.000 abitanti, si rese protagonista di eventi eccezionali. Fatti che, per la loro cruenza, suscitarono nei  contemporanei sentimenti di riprovevolezza e di orrore, la cui eco si propagò ovunque, fino al Parlamento Inglese.

Né poteva essere diversamente, se si va col pensiero a quelle terribili giornate in cui  – testuali parole – “un popolo dolcissimo riputato venne a rompere in eccesso di tanta ferocia che non ebbero e non avranno simili nelle leggende de’ popoli e delle Nazioni incivilite…….”: come afferma il testimone sangiovannese Gennaro Padovano, capitano della Guardia Nazionale, in un documento dell’epoca.

Ma sono anche fatti che trasmettono un insegnamento dal valore inestimabile, purché siamo disposti ad  accettare  umilmente le lezioni della storia.

Il 21 ottobre 1860, come tutti sanno, è una data importantissima della storia d’Italia: la data in cui i le popolazioni delle province dell’Italia meridionale si pronunciarono massicciamente con un “SI” al seguente plebiscito:

“Il popolo d’Italia vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale, e Suoi legittimi discendenti”.

A San Giovanni Rotondo, come in altri paesi, fu invece l’occasione per far scoppiare una reazione in grande stile. Ma è bene fare qualche passo indietro.

Iniziamo con l’ingresso trionfale di Garibaldi in Napoli – avvenuto il 7 settembre 1860, senza il quale il Plebiscito del 21 ottobre non ci sarebbe mai stato. La notizia di questo evento fece il giro del Regno, generando pubbliche manifestazioni di giubilo delle cittadinanze, che trovavano il culmine nel canto del Te Deum nelle chiese matrici.

A San Giovanni Rotondo questo non poté avvenire a causa dell’atteggiamento ostile dell’arciprete Ludovico Bramante il quale, in ottemperanza alle direttive dell’arcivescovo, ritirò l’adesione – già data – del Clero ai festeggiamenti proclamati dalle autorità civili.

Ciò provocò sconcerto nella Plebe che si aspettava una cerimonia religiosa e,  a causa dell’influenza del Clero,  cominciò a guardare con diffidenza le novità politiche liberali.

Credo che anche le questioni demaniali, dovute alla mancata applicazione delle norme eversive della feudalità introdotte dai francesi all’inizio dell’800, abbiano inciso sullo scoppio della  reazione del mese di ottobre.  E su questo argomento credo sia  utile soffermasi di più.

Lo stato di necessità, causato dalla mancata divisione del demanio ai poveri da parte delle autorità municipali, aveva spinto la classe meno abbiente ad aggredire massicciamente  le terre demaniali.

Anzi la fame li costrinse ad “addentare financo le rocce” – come testualmente attestano i documenti – impiegando nella dissodazione una fatica certamente sproporzionata, rispetto al valore dei frutti ricavabili dalla terra dissodata.

Ma quegli uomini dal volto rigato di sudore, in­tenti a cavar pietre, brillavano di luce nuova, fiduciosi che alla fine sarebbero riusciti a sfamare le numerose bocche familiari.

Ciò, però, cozzava con gli interessi degli allevatori che vedevano venir meno  l’erbaggio per il bestiame, i quali allargavano i recinti dei così detti “parchi” per mettere al sicuro pascoli a sufficienza. Per cui  erano scoppiati  gravi conflitti tra proprietari, allevatori e dis­sodatori del demanio comunale.

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Alcune delibere del Consiglio su questo tema, contribuirono certamente a surriscaldare l’aria sangiovannese del mese di ottobre 1860. In particolare il 16 ottobre – solo una settimana prima dell’eccidio – il consiglio , chiamato a deliberare «in nome  di Vittorio Emanuele Re d’Italia», si occupò della divi­sione dei demani delle Co­starelle, di Amendola e Cice­rone.

La proposta del sin­daco di dare a censimento le pre­dette terre provocò la rea­zione unanime dei presenti. La discussione fu tempestosa e terminò con l’auspicio che le autorità provinciali si pronunciassero a favore della  riparti­zione delle terre demaniali.

Nel 1853 l’Intendente della Provincia di Capita­nata aveva ingiunto agli amministratori del nostro comune, senza però riuscirvi, di far istituire in bilancio appositi ruoli dove far affluire il canone relativo alle terre occupate.

Naturalmente questa omissione si ripercuoteva sulla sorte del paese che, con le Casse municipali vuote, versava in condizioni  igieniche infime, senza fogne, con strade non lastricate, chiese cadenti, forni inadeguati, illumina­zione ad olio scarsa e, cosa gravissima, con un’istruzione praticamente inesi­stente.

Perciò i consiglieri, spinti forse dalla ventata di cambiamento, nella stessa seduta trovarono il coraggio di proporre l’introduzione di un ca­none annuo di 4,80 ducati per ogni versura occupata: un canone giudicato irrisorio rispetto ai forti “esta­gli” pagati dai cittadini sui ter­reni dei pri­vati.

Ciò deve aver indispettito i numerosissimi occupatori-dissodatori demaniali che volevano continuare a godersi il demanio senza pagare alcunché. E non deve essere piaciuta neppure agli allevatori, che consideravano la quotizzazione del demanio come una minaccia per l’industria armentizia.

Sono convinto che i capi della reazione approfittarono di questa miscela esplosiva.

Infatti la promessa di terra o la minaccia di toglierla a centinaia e centinaia di persone che la possedevano illegalmente può aver consentito ai grossi proprietari -che poi erano gli “eleggibili” alle cariche pubbliche – di manovrare la plebe e di ricattarla a proprio piacimento, portandola a compiere azioni che non avrebbe mai voluto commettere.

Ma i maggiori responsabili della reazione furono  gli ex soldati del disciolto esercito borbonico, i quali, per un grave errore politico,  erano stati prima inviati in congedo dal dit­tatore Gari­baldi e poi erano stati richiamati sotto le armi con un decreto del nuovo Ministro della Guerra.

Venti di loro, tornati a San Giovanni Rotondo, si rifiutarono di servire la ban­diera tricolore proclamandosi fedeli a Francesco II. Poi, per evitare l’arresto,  si sbandavano nelle campagne, si riunivano in banda armata e davano inizio agli eventi che avrebbero fatto preci­pitare il pa­ese nel lutto e nella disperazione.

Quattro furono arrestati; ma – sicuramente aiutati da qualcuno – il 16 ottobre  evasero dalla prigione forando un grosso muro. Si unirono quindi agli altri soldati sbandati con i quali la Guardia nazionale aveva avuto già dei conflitti a fuoco.

Intanto c’era chi spargeva il seme della discordia dalle scale  della chiesa matrice, dando  alla Plebe notizie di inesistenti vittorie dell’esercito di Francesco II, fingendo di leggerle dai giornali.

Cosicché la plebe ignorante, inca­pace di concepire e seguire una pro­pria ideolo­gia poli­tica, si sentiva come “una asino in mezzo ai suoni”. La paura del ritorno sul trono della dinastia borbonica e dello Stato di Polizia fece il resto. Alla fine essa si schierò apertamente contro il nuovo ordine di cose.

Incise su questa scelta  l’opera dissennata di persuasione dei soldati sbandati che approfittarono anche del malumore causato dall’elezione di alcuni graduati sgra­diti al popolo nella Guardia Nazionale. Tra questi c’era il capo sezione Giuseppe Irace, rinchiuso per motivi politici dai borboni in Castel dell’Ovo di Napoli e poi liberato all’arrivo di Giuseppe Garibaldi.

Il sindaco dell’epoca di San Marco in Lamis Leonardo Giuliani, in un Diario  pubblicato di recente a cura dello studioso del Risorgimento  Tommaso Nardella, svela che il 18 ottobre 1860 l’Irace disarmò quattro guardie nazionali, tra cui Vincenzo Antini, che al suo “Chi Viva?” aveva risposto “Viva Francesco II”.

Il ten. Errico d’Errico – che poi venne ucciso –  avvertito di quanto era successo, fece arrestare l’Antini  ed ingiunse all’Irace di ritirarsi. Ma il giorno successivo il Giudice, dopo averlo ammonito, rimise in libertà l’Antini,  il quale potè unirsi agli altri soldati sbadati per assumere un ruolo di primo piano nella reazione.

Questo episodio fece molto scalpore nella popolazione.

Inoltre, il giorno 20 – vigilia del Plebiscito per l’Unità d’Italia – un incaricato della distribuzione delle schede commise l’imprudenza di dire che chi non si fosse presentato al seggio per votare sarebbe stato fucilato.

Al contrario Francesco Cascavilla, soldato sbandato e capo indiscusso delle sommossa,  lo stesso giorno  fece giungere al sindaco la minaccia che avrebbero fatto una strage se si fosse votato il Plebiscito.

Nei documenti non è stato possibile appurare quale del due minacce sia stata pronunciata per prima, provocando l’altra. Sta di fatto che la popolazione si trovò in una posizione molto delicata perché la scelta di votare o di non votare avrebbe comunque fatto scattare la rappresaglia di una delle due  parti.

Come se ciò non bastasse, il Capo sezione della G.N. Giuseppe Irace ferì in una rissa un popolano e ciò provocò ulteriore risentimento nella  Plebe.

Gli sbandati approfittarono di queste provvidenziali opportunità per fomentare il malcontento tra i popolani i quali, purtroppo, si dimostrarono molto arrendevoli alle   loro maligne insinuazioni.

La mattina del 21 le autorità e molti cittadini si radunarono davanti al Comune, in attesa di dare inizio al Plebiscito. All’improvviso,  da via  Santa Caterina sbucò Francesco Cascavilla al grido di Viva Francesco II, a capo dei soldati sbandati e di molti popolani armati.

La comitiva disperse i comizi, infranse le urne e si accinse a mettere in atto le minacce di strage del giorno prima.

Quel giorno erano presenti solo 30 delle 150 Guardie Nazionali chiamate in servizio. Tuttavia accorsero coraggiosamente sul posto e costrinsero i reazionari a riparare nella parte alta del paese. In Via Pigiano ci fu un fitto conflitto a fuoco, ma per fortuna non si ebbe alcun ferito.

Una guardia nazionale, anzichè sparare contro i soldati sbandati, scaricò il fucile contro il tenente Federico Verna che rimase miracolosamente illeso.

I reazionari si rifugiarono sulla cima di Monte Castellano, da dove potevano controllare meglio la situazione. Da quel luogo continuarono ad incitare a gran voce i sangiovannesi, agitando lenzuola e vessilli bianchi e sparando colpi in aria. Le loro fila intanto si erano ingrossate.

Verso le ore 22 del giorno 21 – quando sembrava che l’ordine fosse stato ristabilito – una furiosa orda popolare, capitanata dal solito Cascavilla, assalì il corpo di guardia rimasto deserto. Furono distrutte tutte le suppellettili, e al posto del ritratto di Garibaldi e di Vittorio Emanuele fu collocato un cartello con la scritta a caratteri cubitali Viva Francesco II.

La paura, purtroppo, aveva spinto molte guardie nazionali a passare dalla parte dei rivoltosi. Le altre, pur nutrendo forti sentimenti liberali, sentendosi tradite dai commilitoni, erano state assalite da un fremito di terrore e si erano ritirate nelle loro case.

La plebe, risucchiata nel vortice dell’euforia generale, avrebbe presto sciolti i suoi istinti peggiori, covati e soffocati dentro durante il lungo periodo di oppressione borbonica.

I tumultuanti erano armati di schioppi, sciabole, pistole, falci, scuri, spiedi e semplici mazze.

E siccome quello era stato un anno di grave carestia, il primo obiettivo fu furbamente individuato dai caporioni nel Caffè di Antonino Maresca, che prometteva alla Plebe un consistente bottino.

Alla fine l’uomo dovette difendersi dalla folla di assalitori e sparò dalla finestra un colpo di fucile che ferì mortalmente  il popolano Giovanni Piacentino (almeno stando ad una versione dei fatti).

Fu l’inizio del «cieco furore di plebe» che travolse uomini e cose. Il Maresca fu preso e trucidato.

Il bottegaio  Antonino Bocchino, incontrato in via Forni, seguì la stessa sorte. I loro corpi furono fatti a pezzi sul posto; i loro negozi sac­cheggiati e di­strutti. Un popolano, dopo avergli tagliato un baffo, infilzò l’orecchio di Antonino Maresca sulla punta di una  falce e lo esibì per le strade. Un altro inzuppò un pezzo di pane nel suo sangue ed ebbe il coraggio di mangiarlo.

In altri paesi – tanto per consolazione – successero di peggio. Durante una delle tre reazioni sammarchesi furono uccise tre guardie. Una fu  scaraventata giù da un balcone alla folla in delirio che si accanì “a consumare indefinite altre sevizie sullo straziato corpo, fino a gustarne il grondante sangue”.

Tutto quanto vi ho sommariamente descritto avveniva in un’atmosfera irreale di violenza e di fanatismo che vide la plebe assalire e saccheggiare l’una dopo l’altra  le case di Agostino Bocchino, Michele Fazzano, Errico D’Errico, Costantino Mucci, Guglielmo Fabrocini, Antonio Maresca e Tommaso Lecce ed altri.

Erano queste le Plebi garganiche di allora, che i borboni avevano tenuto nell’ignoranza più nera per meglio dominarle e sfruttarle!

La mattina del 22 ottobre la turba, ormai padrone del paese e cosciente della propria forza, percorse tutte le strade in lungo e in largo al grido di Viva Francesco II, obbligando con le minacce anche chi era rimasto in casa a partecipare al corteo.

I capi della sommossa avevano compilato meticolosamente una lista delle persone da eliminare. Perciò formarono dei gruppi di facinorosi i quali  andarono a  prelevarle nelle loro abitazioni.

Per avere ragione dei liberali – molti dei quali erano armati – essi  dissero che in paese era stata proclamata la pace e che si dovesse andare in chiesa a suggellarla con il canto del TE DEUM.

I poveracci cascarono nel tranello, poiché nella vicina S. Marco un’analoga sommossa popolare di una settimana prima era rientrata proprio con il canto del Te Deum.  Invece, una volta aperta le porte di casa in segno di pace, gli aguzzini li sequestrarono, sotto gli occhi atterriti dei familiari, e li trascinarono in carcere, senza alcuna considerazione dell’ età avanzata o del numero di figli  o del cattivo stato di salute di alcuni.

In questo frangente il sindaco tentò di mettere al corrente della situazione il Governatore di Capitanata. Ma il messo Costantino Mucci, fu intercettato e ferito con una fucilata al volto e poi imprigionato.

In tutto furono arrestati ventidue liberali.

Altre dodici persone, comprese nella lista, riuscirono a scappare dal paese.

Il governatore venne a conoscenza dei gravi fatti di San Giovanni Rotondo la mattina del 23 ottobre, poche ore prima dell’eccidio, ed organizzò subito  una spedizione con gli uomini disponibili,  per sedare il tumulto.

Finchè dalla cima del Castello i sangiovannesi avvistarono in lontananza una colonna di camicie rosse. La notizia del loro arrivo fu portata in paese da  Emanuele Sabatelli. Questi arrivò su un cavallo lanciato al galoppo, gridando a squarciagola tra la folla: “Viene la forza. Quanti ne vengono! Andiamo ad ammazzare tutti quelli che sono in carcere!”.

Era il tardo pomeriggio del giorno 23 ottobre 1860. Fu un gridare concitato, un correre sostenuto al carcere..…. Seguì il crepitio soste­nuto dei colpi di fucile, sparati attraverso la grata…. E i parenti dei liberali ebbero certezza dell’avvenuta strage.

Ma il delitto non era ancora del tutto compiuto.

Avvertiti dalla moglie del carceriere che alcuni uomini erano ancora vivi, i reazionari tornavano indietro, abbattevano la porta e infierivano sui 22 liberali, la maggior parte dei quali erano già cadaveri, infilzandoli con spiedi, sciabole, ed altre armi bianche.

Risparmio ai presenti altri atroci particolari.

Faccio solo notare come tutto questo avvenne a pochi metri da noi, oltre il porticato, in uno dei locali posti alla vostra destra.

Solo il liberale Vincenzo Irace – uomo dalla robusta corporatura – riuscì a svincolarsi dalla calca, attraversò questo chiostro e si guadagnò l’uscita. Ma ebbe la sfortuna di incontrare il suo compare il quale, alla sua richiesta di aiuto, gli assestò un colpo di accetta in fronte che lo fece stramazzare al suolo.

Poi i sangiovannesi andarono incontro alla truppa e tagliarono un  ponte che si trovava vicino al Castello.

Arrivò per prima una compagnia di 260 garibaldini  guidata da Vincenzo D’Errico, fratello dei martiri Luigi ed Errico.

Il contatto avvenne nelle Matine. Una grandinata di proiettili investì i garibaldini. Dai registri dei morti risulta che quel giorno perirono nelle campagne delle Matine, alla stessa ora, due nostri concittadini. Ma non venne annotata la causa del decesso. Presumibilmente si tratta di persone coinvolte nel conflitto a fuoco.

Il comandante capì che il numero di garibaldini non era sufficiente. Perciò inviò Vincenzo D’Errico a Manfredonia con una richiesta di rinforzi. Strada facendo il D’Errico incontrò il Governatore di Capitanata Gaetano del Giudice, al comando di cinquanta Guardie Nazionali di Foggia.

Con molta presunzione Del Giudice pensò che le sue guardie scelte sarebbero bastate per piegare la determinazione dei sangiovannesi ed  obbligò il D’Errico a guidare il drappello verso San Giovanni.

Giunsero alle porte del paese in piena notte, nei pressi di Sant’Onofrio, spossate dalla fatica, dopo aver attraversato la Valle dell’Inferno e le coppe delle Castellere. Ma al tentativo di entrare in paese le guardie furono investite da una tale scarica di fucileria da indurre il Gover­natore a farle ri­pie­gare a gambe le­vate verso Monte Sant’Angelo, per poi raggiungere Manfredonia.

Il Governatore dirà che i sangiovannesi erano tra i 500 e i 600, con alla testa circa 100 soldati sbandati muniti di fucili a canna rigata il che fa pensare alla presenza di soldati dei paesi vicini… a meno che non si tratti di una bugia, detta per giustificare l’ingloriosa ritirata del suo drappello.

Al mattino fu trovata sul posto la statua di S. Giovanni Battista con una bandiera in mano e alla folla ignorante fu fatto credere che l’avesse tolta alle guardie lo stesso santo.

Intanto la compagnia dei 260 ga­ribaldini aveva risalito le montagne verso ponente e si era asserragliata prudentemente nel con­vento dei Padri Cappuc­cini per trascorrervi la notte.

L’indomani il comandante dei garibaldini mandò in paese un’ambasciata di frati, per trattare la resa. Quando vide i religiosi tornare con la bandiera bianca, in segno di pace, si rincuorò.  Ma all’improvviso le camicie rosse vennero at­tac­cate da un numero im­pressionante di reazionari che si erano appostati sui monti che sovrastano il convento. I frati vennero a trovarsi tra due fuochi e per salvare la pelle si buttarono a terra.

A questo proposito c’è da segnalare che i frati – sempre vicini alla popolazione sangiovannese nei momenti delicati – cercarono di pacificare gli animi. Essendo giunta dal carcere  una richiesta scritta di aiuto dell’Avv. Errico D’Errico, essi non avevano esitato a scendere in lacrime in paese, in processione, per tentare di salvare i liberali. Ma gli sbandati – che non si frenarono neppure davanti alla croce di Cristo – li avevano obbligati a tornarsene in convento, minacciandoli di morte.

Il clero locale invece, pur avendo ricevuto la stessa lettera di aiuto – in cui i condannati a morte avevano espresso anche il desiderio di ricevere gli ultimi conforti religiosi – si erano defilati dal paese.

Nulla potendo con­tro gente così deter­minata, i garibaldini, anche per evitare l’accerchiamento,  abbandonarono il convento e si misero in fuga. Sul campo lasciavano quattro morti e due fe­riti. La battaglia avvenne nel primo pomeriggio del 24 ottobre.

Il tumulto sangiovannese è molto simile a quelli scoppiati nei paesi vicini. Quasi un copione. Segno che le reazioni di San Marco in Lamis, San Giovanni Rotondo, Cagnano e Mattinata possono aver avuto un’unica regia.

Era una regia tutta sangiovannese? Anche se è difficile dare una risposta certa, alcuni fatti depongono a favore di questa tesi.

Leonardo Giuliani, nel diario già ricordato, afferma che i caporioni dell’insurrezione sangiovannese  si recarono a San Marco in Lamis con un nutrito manipolo di compaesani  ed  istigarono anche  la plebe sammarchese  ad affrontare l’esercito del Gen. Liborio Romano sulla strada per Rignano. E sarebbero certamente riusciti nell’intento se non fosse intervenuto il sammarchese Agostino Nardella, detto “potecaro” capo di una notissima e temutissima banda di briganti,  il quale, valutata la situazione, li cacciò via, minacciandoli  pubblicamente di morte.

Del resto non sarebbe stato facile fermare il Gen. Romano, il quale, smanioso di vendicare la morte dei liberali e lo smacco dei garibaldini, stava arrivando con  oltre 1.000 uomini e due cannoni.

Di fronte un tale dispiegamento di forze anche gli irriducibili sangio­vanesi dovettero capitolare. Le truppe entrarono in paese il 26 ottobre 1860, mettendo fine ad ogni altra idea bellicosa.

Questi, in estrema sintesi i fatti.

Una volta ritornato l’ordine in paese, la mano della giustizia fu pesante. Un consiglio subitaneo di guerra, insediatosi nella chiesa di San Giacomo, vi emise una feroce sentenza di morte.

Dieci fucilazioni furono eseguite il 7 novembre 1860 vicino la chiesa della Madonna di Loreto.

Altri tre rea­zionari ottennero la commutazione della pena di morte nel carcere a vita. Decine e decine di persone intervenute nella sommossa, subirono numerosi processi che si trascinarono fino al 1866, con con­danne ai ferri di varia durata. Molti detenuti, messi a dura prova, mori­rono in carcere.

Cosicché dal paese si elevò un unico lamento: quello dei parenti dei martiri liberali e quello dei familiari dei rea­zionari fucilati, accomunati nel dolore per aver perso chi il padre, chi il figlio, chi il fratello, chi l’amico più caro.

Questo fu il risultato della lotta fratricida.

Alla fine di ottobre a San Giovanni Rotondo venne riallestito il seggio per le votazione del Plebiscito. Ottocentocinquanta persone si espressero per il SI a Vittorio Emanuele II. Nove persone, le più coraggiose, per il NO. Complici del risultato, forse,  furono i soldati che presidiavano le urne e il diverso colore della scheda del No – che era rosa.

Identificare e punire gli ideatori e  gli istigatori dell’eccidio non fu cosa semplice.

I giudici erano desiderosi di fare giustizia; ma dovettero fare i conti con le false testimonianze. Il giudice istruttore Cutinelli, in un momento di sconforto,  fu severissimo nell’esternare al sindaco tutto il suo dolore per aver ravvisato “accanto alla tomba degli infelici assassinati, la personificazione della falsità, rappresentata con freddezza d’animo e con la più sfacciata impudenza” da molti sangiovannesi.

Se condanne o assoluzioni ingiuste vi furono, quindi, queste non devono essere addebitate superficialmente solo ai giudici corrotti – com’è di prassi –  senza neppure leggere gli atti giudiziari.

Lasciò scritto l’avv. Antonio Lecce, figlio di uno dei mar­tiri:

«Alcuni ciechi agenti materiali, dell’assassinio immenso, fu­rono col­piti dalla giustizia; ma coloro che dettero le istruzioni,  lo promossero e lo co­mandarono in sino alle ultime conse­guenze, scam­parono dal Con­siglio di Guerra e sfondarono da mosconi, la tela di ragno della Giusti­zia di quel tempo, a tutto cruccio e dispetto dei moscherini. Vi furono pure in quel tri­ste periodo, dei forti scroc­coni che vendettero il sangue di quegl’infelici, e si impinguarono soverchiamente nella cala­mità pub­blica col terrorismo e la minac­cia di galera che fe­cero a molti reazionari scampati».

Dopo le violenze dei giorni compresi tra il 21 e il 24 ottobre 1860 la plebe san­giovannese fu condannata a fug­gire inorridita davanti alla sua stessa ombra.

Per ironia della sorte, la sua cecità e la naturale arrendevolezza  alle maligne insinua­zioni degli istigatori l’avevano portata ad eliminare le persone migliori del paese: proprio quelle che volevano liberarla dal giogo dei Borboni che l’avevano voluta serva ed ignorante.

San Giovanni Rotondo era un comune a bassissimo tasso di al­fabe­tizzazione, con una o due classi elementari funzionanti, che per decenni aveva avuto difficoltà a coprire tutte le cari­che pub­bliche per penuria di soggetti istruiti idonei.  A  causa di quell’eccidio, quindi,  la situazione peggiorò. E non vi poté essere neppure un ricambio poli­tico.

Al contrario i manovratori occulti poterono tirare un sospiro di sollievo: l’eliminazione fisica degli avversari politici avrebbe consentito loro di continuare a spadroneggiare sulla Plebe sotto mutate vesti: un risultato raggiunto senza sporcarsi direttamente le mani di sangue.

Chi avrebbe più osato parlare seriamente  di divisione del demanio? Chi avrebbe tentato ancora di mettere la parola libertà sulla bocca della sfortunata Plebe? La  plebe, uccidendo i 24 liberali, s’era scavata la fossa sotto i piedi!.

In un discorso del 1875 l’ins. Antonio Fabrocini, disse:

«(O plebe,) Tu, lusingata di raccogliere lauti compensi del tuo pro­cace operare, conficcasti, ingannata dall’ottenebrazione di te stessa, tra­dita dalle tenebre, vibrasti il pugnale assassino nel cuore del padre tuo. Al lamento fuggisti inorridita, ma t’incontrasti col suo spettro e ti disse:

Aspettati ben altro com­penso che quello a te fatto: tu non fosti che vile sgabello per farvi salire l’altrui ven­detta!… Fuggi: tu sei lurida, tu sei fu­mante di patrio sangue inno­cente!…. Difatti non s’ebbe(ro) dei vantaggi promessi, lusingati, ma a più strazianti mali andò in­contro. Essa come un sol uomo gittò i 30 denari, e andò ad im­piccarsi al fico!»

Intanto il 22 ottobre 1860, in piena reazione bor­bonica, per una strana combinazione nasceva a Pietrelcina  Grazio For­gione, papà di P. Pio: il disegno della Divina Provvidenza di portare soccorso allo sfortunato popolo sangiovannese stava già prendendo corpo.

Gli atti processuali sono costellati di espressioni pesanti come macigni. Leggerli, per un sangiovannese, costa tanta sofferenza.

Io però ho scelto di non fuggire  inorridito e di non inveire, come altri, contro la verità. Né ho accettato di condividere atteggiamenti che, con la scusa di difendere il popolo, in realtà lo condannavano senza appello, senza neppure tentare di ricostruire la genesi dei fatti.

Ho sentito invece il bisogno di una verità mitigatrice, che alleggerisse il fardello che pesava sulle spalle della mia gente, facendomi guidare da un pensiero di Benedetto Croce: “La storia non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice”.

E’ con questo spirito che mi calai nell’epoca dei fatti ed intrapresi  lo studio attento dei documenti,  durato due anni, conclusosi con la pubblicazione del libro a cui ho accennato.

E, al contrario di chi, per un malinteso senso della storia, pensò addirittura di  cambiare il testo della lapide dei 24 martiri del 1860, giudicato offensivo per la popolazione di San Giovanni Rotondo, sono giunto alla conclusione che mai parole furono più veritiere e più mitigatrici per la Plebe di quelle dettate dal Prof. Mauro Serrano,  centodieci anni fa.

Ve le rileggo, e forse, alla luce di quanto è stato finora detto, esse manifesteranno tutto il loro vero significato:

 
“QUI CIECO  FURORE  DI  PLEBE RINCHIUSE
E  DA  FAUTORI  DI  BORBONICA TIRANNIDE  ISTIGATO
SENZA CRISTIANO CONSIGLIO  IN UN’ORA SOLA
IL 23 OTTOBRE 1860 CON MISERANDA STRAGE
24 EGRECI  UOMINI  TRUCIDO’
CHE  LA  POSTUMA  CITTADINA  RICONOSCENZA
MARTIRI  DI  LIBERTA’  PROCLAMA
E  L’ITALIA  REDENTA  AI  POSTERI  TRAMANDA.

Gli stati di famiglia dell’epoca provano che i martiri erano quasi tutti nulla­tenenti, pur essendo molti di loro dei professionisti. E’ il segno inequivocabile che i martiri non erano – come qualcuno avrebbe voluto far credere  – tra quelli che avevano sfruttato la plebe.

Questi erano dunque veri galantuomini; quelli senza virgolette: se non lo fossero stati,  non li avrebbero uccisi.

Trovate anche voi che il testo della lapide sia offensivo per il popolo sangiovannese?

A me pare di no. Anzi, l’aggettivo “cieco” assolve la plebe, perché sta ad indicare che essa era non era in grado di valutare pienamente le conseguenze delle sue azioni, e non certo per sua colpa.

Quanto al “cieco furor di popolo” esso  non scoppia mai per volontà popolare, ma  per volere di pochi!

Non è forse vero, poi, che la plebe fu istigata da “fautori di tirannide borbonica”, che, come istigatori, sono i veri colpevoli?

Che in un’ora sola furono trucidati 24 egregi cittadini?

Che la postuma cittadina, ormai ravvedutasi, nel 1894 li proclamò “Martiri della Patria”? … La presenza della lapide lo dimostra!

Rimuoviamo una volta per tutte, ora che l’abbiamo affrontato, il punctum dolens, che non è la lapide, né la povera Plebe, bensì l’orrore suscitato dai fatti reazionari di cui essa fu ignara esecutrice.  E’ un nostro dovere, onde non vanificare la morte dei 24 Martiri.

Per me quella lapide ha un valore inestimabile, e vorrei che gli educatori ne spiegassero il messaggio alle nuove generazioni.

Essa insegna a non farsi strumentalizzare da chicchessia, ma a usare il proprio cervello.

Insegna a diffidare di chi istiga e mette zizzania nel corpo sociale, per raggiungere interessi che non sono del popolo.

Insegna, insomma, a pensare ed agire  da persone libere, fino alle estreme conseguenze, come fecero i ventiquattro Martiri.

L’originale della lapide, spezzata in più parti, è stata ricomposta e si trova ora in questo chiostro, in quell’angolo, ed è di monito per tutti: per il cittadino comune come me e per tutti quelli che varcano la soglia di questo palazzo per rappresentare – se al governo o all’opposizione non ha importanza – il popolo di San Giovanni Rotondo.

Purtroppo da  alcuni decenni il clima della nostra città non è per nulla tranquillo e questo non giova alla crescita culturale, sociale ed economica del popolo.

Sembra che i due eventi tragici verificatisi nel 1860 e nel 1920  non abbiano insegnato nulla.  Forse occorrerebbe ancora l’opera pacificatrice di Padre Pio che ha regalato alla nostra città un lungo periodo di serenità che ci ha permesso di crescere.

Ma la Divina Provvidenza, per quanto sia provvida, non può pensare solo a San Giovanni Rotondo! Qualcosa dobbiamo farla anche noi.

Il presente, che è figlio del passato, deve chiamare tutti ad operare con sincerità, intelligenza, serenità di cuore e di pensiero, per la pace sociale di questa terra, nel ricordo  di coloro che, credendo in un mondo migliore, persero il bene prezioso della vita.

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