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23 Nov

Storia di un’impresa autarchica: la miniera di bauxite di San Giovanni Rotondo

di Antonio Tedesco

Il 4 dicembre è Santa Barbara, una ricorrenza molto sentita dai minatori di San Giovanni Rotondo che in spalla portavano la statua della martire cristiana in una lunga processione attraverso le principali strade della cittadina garganica. La Società Montecatini in occasione della festa di Santa Barbara inviava a ciascun minatore un pacco regalo contenente viveri di ogni genere ed aveva istituito, alla fine degli anni trenta, su direttive del regime,  il premio  «fedeli alla miniera » da distribuire ogni anno in occasione della festa di Santa Barbara“.

L’industria mineraria di San Giovanni Rotondo, ebbe un ruolo di rilievo nel panorama economico, sociale e produttivo nazionale, sin dall’inizio dell’attività estrattiva, negli anni trenta, in piena autarchia economica.

Nel marzo del 1936, il regime seguendo le linee guida dell’autarchia nel campo minerario, aveva favorito la scelta antieconomica di produrre alluminio «totalmente italiano», preferendo il processo Haglund (che poteva servirsi delle bauxite nazionali a basso tenore di alluminio) al sistema Bayer (più efficiente sotto il profilo energetico e utilizzato con successo dalla concorrenza straniera), e fissando l’obiettivo di 40.000 tonnellate di alluminio da produrre nel 1940. L’alluminio veniva utilizzato principalmente per l’industria bellica (aerei), ma anche per produrre mobili, lampade e biciclette.  La produzione venne incentivata principalmente per sostituire materiali di cui l’Italia era povera, come il rame: «quando la produzione sarà arrivata alle 40.000 tonnellate volute dal duce si potranno vantaggiosamente sostituire 20.000 tonnellate di rame, 2.000 di stagno, 500 di nikelio cioè di materie importate dall’estero». In tali condizioni l’Italia poteva, secondo il regime, svincolarsi dai rifornimenti stranieri, tenuto conto che la principale materia prima richiesta dall’industria dell’alluminio, la bauxite era presente in abbondanza in Italia». Il fascismo fece di questo metallo la bandiera dell’autosufficienza economica italiana. Il duce poteva contare per questo settore sulla società Montecatini,che ha sempre sostenuto il fascismo sin dalle battaglie del grano degli anni venti. La Montecatini, con l’appoggio del duce, ampliò notevolmente la propria potenza industriale, tanto che negli anni trenta l’acquisto delle azioni Montecatini è paragonato all’investimento in titoli di stato; tuttavia, il clima creato dalla politica autarchica fece compiere all’azienda scelte che una strategia dettata da logiche squisitamente economiche avrebbe probabilmente evitato. L’opportunità di disporre di fonti proprie di approvvigionamento di bauxite non era, certamente, sfuggita alla Montecatini ma le ricerche eseguite nell’Istria avevano avuto esito sfavorevole e le più importanti zone sfruttabili erano state già concesse ad altri gruppi ( soprattutto americani).

Alla fine del 1936 la società milanese potè constatare la presenza di un grosso giacimento valutato nell’ordine di circa tre milioni di tonnellate di minerale, nel territorio di San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia. La notizia della scoperta venne diffusa con grande enfasi dalla stampa fascista: «La nuova miniera è già sul piede di sfruttamento industriale e sino al prossimo anno darà molte decine di migliaia di tonnellate di ottima bauxite, salvo pel 1940 portarsi sull’ordine di una produzione molto maggiore. Con queste realizzazioni l’Italia può ormai guardare tranquillamente a qualsiasi futura eventualità e l’autarchia dell’alluminio che il duce ha fissato nella cifra di 40.000 tonnellate da raggiungere nel 1940, sarà sicuramente raggiunta». «Di recentissimo accertamento, almeno nella loro imponenza, che è stata ritenuta tale da qualificarsi i più importanti d’Europa, sono i giacimenti di bauxite nel Gargano […] della portata di queste miniere è stata resa nota in una solenne seduta della Commissione suprema per l’Autarchia».

La presenza di bauxite sul Gargano era nota. I primi studi di rilievo furono effettuati dal professor Squinabol (illustre geologo di Rovereto) nel 1894 mentre svolgeva i suoi studi geo-fisici sul Gargano ma solo nel 1917 con Crema si diede seguito alla sua scoperta, estendendo le ricerche e individuando il materiale in una quarantina di località, su una zona irregolare comprendente all’incirca la maggior parte del territorio di San Marco in Lamis, un tratto del contiguo territorio di Rignano Garganico e la parte più bassa della conca di San Giovanni Rotondo.

Nel 1937 lo sfruttamento del minerale avvenne in tre aree comprese tra il comune di San Giovanni Rotondo e San Marco in Lamis.

Il giacimento maggiore fu rinvenuto in località Quadrone ed era costituito da un banco bauxitico intercalato tra calcari del Cretaceo medio a letto e calcari del Cretaceo superiore a tetto, quindi lo sfruttamento del minerale poteva avvenire solamente attraverso un sistema di pozzi e gallerie; mentre gli altri due giacimenti (in località Posta Rossa ed in località Donna Stella) potevano essere coltivati mediante cave a cielo aperto, «avendo qui l’erosione asportato i calcari insistenti sul minerale e quindi questo affiorava all’esterno».

La percentuale di allumina presente nel minerale era mediamente del 53% ÷ 56%, con un alto tenore di silice e di ossido di ferro. Il giacimento istriano, invece, aveva una media del 58% di allumina ed un inferiore tenore di silice (3% rispetto al 4% della miniera di San Giovanni Rotondo). La qualità del minerale non era eccezionale. Inoltre il sistema di coltivazione nelle gallerie aumentava notevolmente i costi estrattivi. Comunque la società Montecatini decise di investire nella bauxite garganica costruendo un importante sito minerario, beneficiando delle agevolazioni speciali sui nuovi investimenti (esenzione per i primi dieci anni delle imposte sugli immobili e particolari sgravi fiscali).

Il ministro delle finanze Thaon di Revel dopo un sopralluogo presso la miniera sottolineò, durante una riunione della Commissione suprema dell’autarchia, l’importanza del giacimento garganico per il raggiungimento degli obbiettivi autarchici nel campo minerario, segnalando la necessità di adeguare e di potenziare il porto di Manfredonia: «il duce comunica di aver già dato disposizioni al Ministro dei lavori pubblici per la opportuna attrezzatura di quel porto».

In pieno regime fascista, in un piccolo paesino del disperato Sud, appena conosciuto per la presenza di Padre Pio, si diede vita ad un imponente sito minerario che «rappresentava per tante famiglie garganiche l’opportunità di riscattarsi da un’esistenza fatta di fatiche e di una povertà immutabile nei secoli».

Il materiale estratto veniva caricato su camion e trasportato al porto di Manfredonia per la successiva spedizione allo stabilimento di Porto Marghera, gestito dalla stessa società,per la prima lavorazione del minerale.

La società milanese ebbe i permessi di ricerca e di sfruttamento che iniziarono nel 1937 con i primi lavori esplorativi eseguiti su un’area di 5 km di lunghezza (direzione est-ovest) e per 1 km di larghezza (direzione nord-sud). I primi lavori videro l’impiego di 200 operai.

Le attività di ricerche terminarono nel 1939 con la delimitazione e messa in vista di un importante deposito la cui consistenza venne calcolata in non meno di 10 milioni di tonnellate. La società Montecatini ebbe la concessione dello sfruttamento della bauxite per cinquant’anni anni.

A San Giovanni Rotondo la Montecatini inviò l’ingegner Andrea Sculco, uomo di comprovata fede fascista, per dirigere la miniera. La manodopera venne trovata in loco: braccianti, falegnami, fabbri cavatori, pastori, prevalentemente di San Giovanni Rotondo e qualcuno dai comuni limitrofi. Ad insegnare il faticoso mestiere di minatore giunsero sul Gargano minatori esperti, geometri ed ingegneri, soprattutto dalle Marche e dalla Toscana. Nel febbraio del 1939 la Montecatini presenta la miniera di San Giovanni Rotondo alla mostra autarchica del minerale italiano: «dopo la presentazione della bauxite di una cava istriana e di plastici dove sono indicati i giacimenti di Istria e quelli, recentemente scoperti, di San Giovanni Rotondo in Puglia, si passa in un salone dove viene illustrato il procedimento di trasformazione del minerale».

La scelta governativa di incoraggiare la Montecatini nello sviluppare il giacimento di San Giovanni Rotondo appare difficilmente comprensibile, soprattutto se si considera che persino l’ambizioso piano autarchico dell’alluminio, che prevedeva per il 1941 una produzione di metallo pari a 70.000 tonnellate, avrebbe comportato un utilizzo di non più di 280.000 tonnellate circa di minerale, volume produttivo largamente superato dalle miniere istriane già nel 1937 con 386.000 tonnellate estratte. La scelta di appoggiare lo sviluppo da parte della Montecatini di una produzione di bauxite pugliese pari a circa 200.000 tonnellate annue, che oltretutto risultava di qualità inferiore rispetto a quella istriana per il più alto contenuto di ossido di ferro e di silice, parrebbe essere stato legata a motivazioni di ordine squisitamente politico. L’esigenza era quella di appoggiare lo sviluppo di una produzione di bauxite controllata da un’impresa italiana, e quindi dallo stato, da contrapporre al controllo esercitato dall’americana Alcoa sulle miniere istriane e di avere un’autonomia mineraria di fronte ad una possibile guerra.

Sin dal 1941 la politica autarchica del governo nel campo minerario si rivelò fallimentare; le difficoltà incontrate nel garantire i necessari rifornimenti di energia elettrica ridussero gravemente la produzione degli stabilimenti per la produzione di alluminio.Tra il 1941 e il 1943, un quarto della bauxite italiana dovette essere esportata in Germania ed in Svizzera, ma le esigenze dell’industria bellica nel 1942 obbligarono all’importazione dalla Germania, a caro prezzo, di ben 11.000 tonnellate di alluminio.

La miniera divenne il più grande centro operaio della provincia e numerose erano le visite delle autorità fasciste in quegli anni e non mancò la visita di Mussolini: «Il duce ha visitato oggi at San Giovanni Rotondo stabilimento bauxite acclamato da un centinaio di operai minatori. Si è poi recato a Manfredonia per visitare porto dove è stato fatto segno a calorosa manifestazione. Tornato Foggia ha visitato quell’aeroporto ripartendo ore 18,35 in littorina per Bisceglie unitamente Eccellenze Cavallaro et Squero. Giunti Foggia ore 17,15. alla stazione Foggia duce è stato accolto da folla viaggiatori».

Il viaggio del duce in Puglia era stato programmato per passare in rassegna a Bari la divisione degli alpini della tridentina, reduci dalla disastrosa campagna di Grecia esaltata dal regime come «vittoriosa campagna contro gli anglo-greci». La visita avvenne nella massima segretezza e fu vietato ai giornali, su precise direttive del ministro della cultura popolare Pavolini, di trascrivere la notizia fino al 12 luglio quando Benito Mussolini era già rientrato a Roma: «Comunico seguenti disposizioni impartite ai giornali: Non parlare dei funerali avvenuti oggi in Germania degli operai italiani vittime di un bombardamento aereo. Nessuna notizia del duce in Puglia fino all’eventuale diramazione di una “Stefani” XXII. Non riprendere le notizie dei russi circa l’impiego di gas tossici tedeschi, attenersi esclusivamente a eventuali comunicazioni ufficiali germaniche».

L’ingegner Sculco raccontò della visita di Benito Mussolini alla miniera di San Giovanni Rotondo, caratterizzata da un episodio tragi-comico: «Il suo autista dopo la provinciale (una bella strada catramata e scorrevole) girò per la strada secondaria che portava alla miniera, senza rallentare. La strada era in condizioni gravi per il passaggio dei numerosissimi camion carichi di bauxite e per le piogge recenti che avevano ridotto il fondo stradale un vero disastro. Buche profonde la costellavano. Mussolini si prese una capocciata tremenda, il fez gli andò di traverso».

Dopo aver visitato la miniera, il duce si interessò della costruzione della teleferica per trasportare il minerale a Manfredonia con minore dispendio economico. Il progetto era legato alla realizzazione dell’impianto industriale per la lavorazione in loco del minerale per la produzione dell’alluminio. I lavori non furono mai completati.

I primi anni di attività furono di grande intensità e la società Montecatini decise di costruire un vero e proprio villaggio operaio. Queste azioni furono spinte dal governo centrale: «Il villaggio operaio per i minatori della bauxite in notevole efficienza e crescente sviluppo costituirà al più presto una magnifica realizzazione fascista nella nostra provincia che anche nel campo minerario è in prima linea nella battaglia autarchica. Come a suo tempo annunziammo, il villaggio degli operai minatori sorgerà per espressa volontà del duce manifestata dopo la visita fatta alla miniera in attuazione del programma di decentramento delle industrie del Mezzogiorno d’Italia».

I lavori per la costruzione del villaggio costarono complessivamente dieci milioni, finanziati prevalentemente dalla Confederazione dell’industria, mentre la Montecatini si impegnò al pagamento del fitto dei locali all’Istituto provinciale delle case popolari a cui fu affidata la gestione: «All’esterno vennero approntati: un dormitorio di 150 letti, un refettorio per 100 operai, sala convegno e spaccio viveri, ciò in aggiunta agli apprestamenti funzionanti nell’abitato di San Giovanni Rotondo». L’idea paternalistica di un welfare aziendale nasceva dall’esigenza di costruire la fabbrica totale, riducendo al minimo lo spazio tra vita privata e vita aziendale.La realizzazione del grande insediamento industriale portava con sé le contraddizioni di un lavoro che si svolgeva in condizioni estreme. Nell’ottica d’industrializzazione dell’Italia fascista si procedeva senza il rispetto delle norme sull’infortunistica sul lavoro, garantendo a grandi imprese come la Montecatini l’esenzione parziale dall’obbligo di congegni di sicurezza. Già dai primi anni di attività furono sollevate perplessità sulla condizione dei lavoratori costretti a lavorare sottoterra; il podestà di San Giovanni Rotondo, inoltre, nel 1939 sottolineò come le paghe dei minatori non fossero proporzionate alla mansione. Nel 1940 nel giro di pochi mesi persero la vita due lavoratori, Matteo Siena in marzo e Matteo Notarangelo in novembre: le prime vittime sul lavoro di una lunga serie (i caduti sul lavoro diventeranno27). Gli incidenti erano provocati da improvvisi crolli delle gallerie, ma soprattutto dall’inesperienza di uomini che erano abituati a lavorare con la luce del sole. L’intensa attività venne interrotta dai rombi assordanti degli aerei degli Alleati: «Molte volte la miniera è stata mitragliata dalle forze aeree alleate ed un pesante bombardamento ha avuto luogo il 16 agosto 1943. In questa occasione abbiamo avuto una vittima e solo un po’ di danni, che alla fine sono stati riparati con i mezzi dell’azienda. Da questa data l’afflusso dei minatori alla miniera è stato molto esiguo ed è diventato quasi nullo nei giorni precedenti e durante la ritirata dell’esercito tedesco. I segni di preavviso del ritiro ci ha fatto prevedere la distruzione sicura di impianti della miniera, il direttore aveva avuto prima delle istruzioni dalla sede di Milano per evitare questa distruzione così sarebbe stato possibile mantenere la miniera in condizioni adeguate per essere pronta a funzionare anche durante il periodo di occupazione anglo-americana. Nonostante il regime del terrore imposto alla popolazione civile dalle truppe tedesche, un duro lavoro è stato fatto dalla direzione della miniera per mettere in sicurezza e nascondere tutti i materiali che potevano essere bruciati […] sono stati nascosti sottoterra con tutti i mezzi e sorvegliati da pochi uomini, quasi esclusivamente dai funzionari della miniera e da impiegati d’ufficio, i lavoratori avevano paura di scendere dal villaggio alla miniera e lasciare che la famiglia rimanga senza aiuto».

La riattivazione della miniera era bloccata perché il porto di Manfredonia aveva subito dei pesanti bombardamenti che avevano distrutto i due piroscafi, Apollo ed Hermada adibiti al trasporto del minerale a Porto Marghera.

Alla fine del 1945 l’attività della miniera riprese regolarmente e la direzione della miniera prese in considerazione la possibilità di vendere alcune tonnellate di bauxite agli americani per rilanciare la miniera, ed alcuni campioni di materiale furono spediti negli Stati Uniti, ma la qualità, il prezzo elevato del minerale e le difficoltà nel trasporto inibirono gli americani dall’acquisto. La relazione del 1946 sulla produzione nazionale di bauxite, espletata dall’autorevole dottor C. Faina, sottolineava l’importanza del giacimento garganico, soprattutto in previsione della perdita delle miniere dell’Istria. La miniera di San Giovanni Rotondo, secondo i calcoli del ministero, avrebbe coperto il fabbisogno interno di bauxite. Per tale ragione fu implementata e nel secondo dopoguerra vive un periodo di grande crescita conl’impiego di oltre 600 operai e riprende vigore il progetto di trasformare in loco il minerale, con la costruzione di un grande impianto industriale. Il progetto di realizzazione di un impianto era stato proposto all’interno del Consiglio provinciale delle corporazioni già nel 1937 e nel 1942 fu la stessa società Montecatini a presentare un progetto di massima per la realizzazione di un impianto, «il quale molto probabilmente, sarebbe sorto nelle immediate vicinanze di Manfredonia», ed aveva avuto il parere favorevole del distretto minerario di Napoli. Il progetto non andò in porto: «e pensare che proprio nel 1940, quando cioè la miniera di San Giovanni Rotondo rivelava in pieno la sua vasta capacità produttiva, il governo fascista, accanto ai numerosi stabilimenti di Porto Marghera, un altro ne faceva sorgere, per la lavorazione della bauxite, ma non qui, dove sarebbe stato logico e giusto che sorgesse , ma a Bolzano!!! Funesta conseguenza questa, della politica anti-meridionale del regime fascista».

Nel secondo dopoguerra si intensificano le pressioni per la costruzione di un’industria per la trasformazione del prodotto in loco grazie alle pressioni del senatore Luigi Tamburrano e dell’Associazione Rinascita Garganica. Il piano di industrializzazione fu abbandonato dalla società milanese per alcune ragioni tutt’altro che inconsistenti. In primo luogo, il metodo di produzione dell’alluminio utilizzato dalla Montecatini necessitava di abbondanti risorse idriche ed energetiche, che erano piuttosto carenti sul territorio garganico. Ma la ragione principale è da individuare nell’aspirazione del colosso milanese ad importare la bauxite dall’estero, di migliore qualità, ad un prezzo nettamente più conveniente: a ciò si devono le pressione della Montecatini all’abolizione del dazio doganale. Già nel 1947 l’Italia stipulò i primi accordi commerciali con la Jugoslavia per l’importazione di bauxite, di manganese, di zinco, di carbone e di legname, per un volume di affari di 150 milioni, accordi che furono intensificati nel 1949.

La Montecatini decise di rilanciare la produzione di alluminio utilizzando i fondi del piano Marshall (un consistente investimento di 50 milioni di dollari). In attesa dell’abolizione del dazio sull’importazione di bauxite dall’estero, la società milanese decise di aumentare lo sfruttamento della miniera di San Giovanni Rotondo, che aveva alcuni milioni di tonnellate di bauxite certamente non di elevata qualità, ma si potevano ammortizzare i costi di produzione sfruttando la manodopera locale a basso costo.

Intanto il numero delle vittime continuò a crescere. Nel 1948 morì Carmine Giuliano, nel 1949 Giovanni Longo e Carlo Chiorri, nel 1950 Nicola Mangiacotti e nel 1951 tre minatori furono travolti, nella notte del 27 luglio, da un violentissimo nubifragio. Una tragedia che scosse l’Italia: «Nell’apprendere notizia grave sciagura abbattutasi sul territorio garganico, pregola volersi rendere interprete mio profondo cordoglio presso famiglie lavoratori così tragicamente scomparsi assicurando popolazioni colpite mia commossa partecipazione loro affanni. Voglia anche recare il mio fervido augurio ai feriti e tributare in mio nome un particolare encomio ai valorosi minatori Carmine Fiore e Ettore Silvani generosamente prodigatisi nella fraterna opera di sollevamento. Luigi Einaudi, presidente della Repubblica italiana».

L’alluvione del 26-27 luglio 1951 fece, sul Gargano, circa 595 milioni di lire di danni colpendo principalmente San Giovanni Rotondo, Manfredonia, San Marco in Lamis e Monte Sant’Angelo. L’alluvione provocò l’allagamento della miniera e il bilancio sarebbe stato più grave: «gli operai che lavoravano all’esterno, allarmati dall’imminente pericolo, tentarono di avvisare le maestranze che stavano all’interno della miniera e poiché, mancando la corrente elettrica , la sirena d’allarme non funzionava, inviarono nelle discenderie dei bigliettini per mezzo dei vagoni che trasportavano il minerale. Riuscendo vano ogni tentativo l’operaio Carmine Fiore, con spregio della propria vita, penetrava nell’interno della miniera dando l’allarme e permettendo così ad oltre cento operai di mettersi in salvo […]. Fiore poi scese al 15° livello dove trovò altri sette minatori ignari del pericolo […] raggiunto il 10° livello furono travolti dalle acque e spinti verso una parete dove il Fiore poté aggrapparsi […] dopo due ore furono raggiunti dal sorvegliante Console e dal caposquadra Ettore. Console provò a risalire ma fu travolto dalle acque con i minatori Lepore e Ritrovato, mentre Fiore e Silvestri riuscirono a ripararsi in una galleria laterale».

L’onorevole Di Vittorio, dopo aver visitato i luoghi della sciagura, evidenziò le grandiresponsabilità dell’azienda per l’assenza di una diga protettiva; inoltre la miniera era sprovvista di una linea telefonica per contattare i soccorsi.

Dopo la tragedia l’ingegner Damiani prese il posto di Sculco alla direzione della miniera. Con Damiani la miniera aumentò notevolmente la produzione anche grazie alla meccanizzazione dell’estrazione, con l’utilizzo dello scraper e con la costruzione del “pozzo”. Negli anni cinquanta la Montecatini aumentò l’importazione di bauxite, grazie all’abolizione dei dazi doganali, dando vita alla lunga stagione di licenziamenti. L’esigenza di ridurre l’organico spinse l’azienda a trovare ogni pretesto per avviare pratiche di licenziamento supportate dall’intransigenza dell’Ispettorato del lavoro di Foggia. Ad essere licenziati furono soprattutto gli operai assenteisti per ragioni di malattia e coloro che partecipavano attivamente al sindacato. In questi anni molti minatori si ammalarono di silicosi, di ulcera gastrica e di altre malattie tipiche dell’insalubre lavoro in miniera: «I lavoratori della miniera chiedono solidarietà necessaria per ricacciare indietro la posizione della Montecatini, la quale non considera l’aspetto umano del lavoratore che dopo 10-15 anni di lavoro contrae malattie di tipo professionale, quando non muore nei posti di lavoro per infortunio mortale, ma tende ad annullare le libertà sindacali e democratiche».

Il piano di licenziamento della direzione della miniera prevedeva il sostegno al prepensionamento dei minatori sopra i 55 anni che potevano beneficiare della legge 3 gennaio 1960, n. 5, assieme ad una corposa buona uscita di 200.000 lire. Le mobilitazioni sindacali in molte occasioni riuscirono a frenare i licenziamenti di massa e ad ottenere notevoli miglioramenti economici e lavorativi. Molto spesso la direzione nazionale della Montecatini sottolineava la “turbolenza” della miniera di San Giovanni Rotondo.

Nel 1962 l’onorevole Vincenzo Russo e il consiglio provinciale di Foggia si interessarono per il rilancio della miniera, ripresentando il progetto della costruzione in loco di uno stabilimento per la trasformazione della bauxite in alluminio e per la lavorazione dei sottoprodotti della ghisa e del cemento alluminoso, chiedendo l’intervento dello stato attraverso l’intervento dell’Eni e dell’Iri.

La risposta della Montecatini fu drastica: «anche un profano comprenderebbe che non si gettano al vento centinaia di milioni di lire per costruire uno Stabilimento che avrebbe pochi anni di vita […] il giacimento di San Giovanni Rotondo ha una consistenza di 2 milioni di tonnellate, talmente modesta, quindi che non solo impedisce una utilizzazione in loco della bauxite estratta, ma consiglia addirittura una riduzione della produzione annua onde avviare il giacimento stesso a rapido esaurimento. La bauxite estratta non è di buona qualità a causa del basso tenore di allumina che la medesima contiene. A ciò aggiungasi che la presenza nel giacimento di consistenti strati calcarei influisce in senso negativo sulla qualità del minerale, che non è pertanto in grado di reggere la concorrenza non solo della bauxite jugoslava o di quella greca, ma nemmeno della bauxite indiana e australiana».

Nel 1964 i segnali della chiusura della miniera si fecero sempre più evidenti. In un importante articolo sul «Gargano», Donato Apollonio descrisse il sistema esasperante della Montecatini nei confronti dei vecchi minatori con le «minacce di trasferimento o con il premio di liberalità per i dipendenti disposti a dimettersi […] Si guardi con occhio più benevolo alle centinaia di lavoratori che nelle viscere della miniera di San Giovanni Rotondo hanno lasciato un po’ della loro floridezza giovanile e tanti anni di vita […] non può, non deve il colosso Montecatini poter schiacciare impunemente una popolazione laboriosa e umile, desiderosa soltanto di vedersi conservato il suo posto di lavoro e, con esso, il suo sudatissimo pane quotidiano».

Sempre nel ’64 la direzione della Montecatini spostò di mansioni alcuni lavoratori, creando destabilizzazione tra gli operai: «proseguendo nell’opera di smantellamento della miniera garganica i dirigenti della Montecatini sono arrivati all’assurdo di invertire le mansioni di un’aliquota di operai trasferendo quelli addetti ai lavori esterni (officina, manutenzione impianti, carico e scarico) nel sottosuolo e i minatori all’esterno creando, così, delle impossibili condizioni di lavoro».

Il 1967 è l’anno in cui si accelera il processo di smobilitazione della miniera con la politica dei trasferimenti. I sopralluoghi esplorativi svolti senza troppa convinzione in altre località del Gargano non avevano dimostrato la presenza di altri giacimenti bauxitici coltivabili.

D’altra parte la società milanese aveva già rinunciato a tutti i permessi di ricerca mineraria. Nel marzo del 1967 la Montedison (dopo la fusione nel 1966 tra Edison e Montecatini) iniziò la costruzione di un impianto di produzione di alluminio a San Paolo in Brasile, con l’accordo con la compagnia brasiliana di alluminio sfruttando le bauxiti locali. Due anni prima aveva aperto un impianto in India (impianto di Mettur) della Madras Alluminium Co.

La direzione della Montecatini organizzò un piano di riduzione graduale dell’organico fino alla chiusura della miniera prevista entro i 4-5 anni. Le possibilità per i minatori in esubero erano due: accettare il trasferimento in altre miniere o autolicenziarsi.

Contro i trasferimenti si mobilitarono intensamente i senatori comunisti Kuntze e Conte.

Nel 1973 la Montedison rinuncia definitivamente alla concessione mineraria di San Giovanni Rotondo: «La coltivazione del deposito di San Giovanni Rotondo è stata proseguita negli ultimi anni dalla Montedison, nonostante si trattasse di un’attività antieconomica. Ciò è stato fatto fondamentalmente per due considerazioni: in primo luogo per non cessare bruscamente un’attività che avrebbe comportato il licenziamento di circa 200 operai. Inoltre per mantenere una produzione propria di bauxite , sia allo scopo di avere una fonte di rifornimento per il caso di mancato arrivo di partite di minerale di importazione, sia per spuntare prezzi favorevoli per la bauxite di importazione, quali produttori di bauxite. Oggi non sussistono più i problemi di approvvigionamento, specialmente a seguito della partecipazione della Montedison alla messa in produzione dei grandi giacimenti di Bokè, nella Guinea-Bissau. D’altra parte la funzione calmieratrice della produzione della Montedison non è più efficace, sia perché le produzioni si sono ridotte a circa 90.000 t/a, sia perché è noto, nell’ambiente dei produttori di bauxite che il giacimento di San Giovanni Rotondo è ridotto ad alcune decine di migliaia di tonnellate. La coltivazione del minerale residuo inoltre potrebbe essere fatta attualmente ad un costo del 55% superiore a quello della concorrenza estera».

L’annuncio della chiusura dell’attività fu un evento drammatico per tutta la comunità garganica. Il 6 febbraio 1973 la direzione della miniera annunciò la chiusura delle attività prevista per il 17 febbraio. Il giorno seguente 31 dei 70 minatori ancora alla dipendenze della Montedison, spontaneamente, occuparono la miniera; la stampa nazionale li definì “i sepolti vivi” facendo commuovere l’Italia intera.La protesta, guidata dal minatore Perna Biase, provò a sensibilizzare le autorità contro la chiusura, chiedendo di affidare all’Egam (Ente gestione aziende minerarie) la gestione della miniera fino all’esaurimento del giacimento. L’occupazione della miniera durò 9 giorni, fino a quando l’intervento del ministro dell’industria Ferri e del sottosegretario ai lavori pubblici Russo determinò «la revoca sine die di ogni provvedimento di chiusura da parte della Montecatini».

La battaglia dei “sepolti vivi” fu inutile: traditi dal governo nazionale e dall’azienda (che aveva garantito la prosecuzione dell’attività estrattiva), furono trasferiti nelle fabbriche del Nord, determinando la chiusura definitiva della più grande miniera autarchica italiana.

 

 

 

 

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