Di Donato Placentino
Forse non tutti riescono a comprendere quello che veramente si vive negli ospedali.
Sia per gli operatori sanitari che per i pazienti.
E quando leggo di persone che dal 4 maggio vogliono tornare alla vita normale, sorge nell’operatore sanitario una sorta di rassegnazione. Non so se avete ben presente cosa significhi lavorare in situazioni estreme.
Che ormai non sono più delle situazioni straordinarie di qualche giorno o mese. Ma diventerà la routine. In una terapia intensiva per delle ragioni pratiche ci sono circa 24-25gradi.
Per mantenere la pressione negativa porte e finestre sono ermetiche. In una sezione ci sono pompe infusionali, pompe volumetriche, monitor dei parametri vitali, respiratori e a volte anche macchine per la dialisi, pompe di calore e macchine per materassini ipotermici.
Tutte apparecchiature che generano calore. Avevamo già caldo quando lavoravamo a maniche corte.
Descritto un quadro normale di terapia intensiva, immaginate cosa significhi effettuare un massaggio cardiaco per abbondanti 20 minuti con tutti i DPI, come un omino Michelin. La fatica quadruplicata, gli occhiali protettivi appannati, continuare a respirare la propria anidride carbonica nella mascherina che porta a ipotensione e mal di testa, grondare di sudore.
Tutto ciò per salvare una vita. Ma purtroppo non ci riuscimmo. E continuare a lavorare per ore in quelle condizioni. Si perché non è che finisci di massaggiare e vai a farti una doccia. Magari.
Ci sono protocolli rigidi.
E quando finalmente vedi arrivare i colleghi che ti danno il cambio, devi seguire tutta la procedura di svestitone per evitare di inquinarti, perché c’è più probabilità di contagiarti durante la svestitone che vicino al paziente. Contagiarci noi e di conseguenza anche chi incontreremo dopo. Ormai i nostri colleghi sono diventati la nostra famiglia. Sono le uniche persone che vediamo, oltre alle persone che incontriamo ai market durante la spesa settimanale. Ci siamo isolati dalle nostre famiglie.
Le vediamo solo tramite video-chiamate. Alcune colleghe, madri giovani, non vedono i figli piccolini da un bel po’.
Contagiare un proprio caro potrebbe avere forti ripercussioni psicologiche. E lo stesso varrà per il rimorso di non aver vissuto i propri figli in periodi critici della loro fase di crescita. La nostra vita in questo periodo è un’alternanza di ansia e di euforia, di gioie e di paura. Il nostro stato psichico è compromesso. Se per voi si può tornare alla normalità, per noi la normalità non ci sarà più.
Una terapia intensiva già normalmente comporta conseguenze fisiche e psicologiche. Ora queste sono maggiormente accentuate. Non si parla solo di stati emotivi. Questa patologia richiede continui cambi di posizione del pazienti.
Alternanza di posizione supina a posizione prona e laterale, con dispendio fisico notevole per un’infermiere, che si somma alla routine della terapia intensiva.
I pazienti sono obbligati a letto. E siamo noi a lavare i denti, shampoo, barba, igiene intima, medicazioni… Sempre vestiti come omini Michelin.
Il continuo usare DPI per molti giorni ci porterà a soffrire di emicrania, cervicalgia, dorsalgia, sbalzi di temperatura corporea e reumatismi. Respirare in una maschera filtrante a lungo andare porta ad emicrania. Indossare occhiali protettivi crea una sorta di sottovuoto che crea un aumento della pressione intraoculare con conseguente emicrania.
Le tute (le taglie sono random, non stiamo al negozio che le proviamo prima) e soprattutto il cappuccio ci obbligano a determinate posizioni con conseguente dolore cervicale. Il cambio di posizione dei pz e la gestione di alcune apparecchiature (vedi macchina dialitica) genera dolori lombari.
L’indossare una tuta (sono idrorepellenti) fa sudare molto e porta a disidratazione (ebbene si, dobbiamo aspettare il cambio turno per bere, mangiare e bisogni fisiologici). La disidratazione porta a ipotensione con conseguente mal di testa e a volte capogiri. Il sudore che si asciuga addosso porta ai reumatismi. Ho scelto di fare l’infermiere e sono sempre più convinto di aver fatto la scelta giusta
. Ma purtroppo non ho scelto di vivere in un mondo di irresponsabili. E a volte mi domando se vale la pena fare tutti questi sacrifici. Assistere pazienti che magari nel turno successivo non li trovi più.
Assistere a morti atroci. Morire per mancanza di ossigeno è come morire annegati. Si muore con gli occhi aperti. E tu sei l’ultima persona che ha visto il pz. Capite il nostro stato psichico?
Qualcuno ci dice che noi ormai ci abbiamo fatto l’abitudine. Ed è una cosa bella? Alla morte di un mio parente non sono riuscito a cacciare una lacrima!!! Per fortuna siamo riusciti a trasferire alcuni pz in area medica covid-19. L’unica nostra gioia in un mondo di lacrime è vedere un pz che esce dalla terapia intensiva, ma ciò non vuol dire che è guarito.
E resti sempre con il pensiero che possa ritornarci. Non vediamo pz uscire dall’ospedale con le proprie gambe. Li trasferiamo con barelle nei reparti covid-19 con ancora l’ossigenoterapia. Sperando che nei giorni a seguire si “negativizzino” e tornino a casa, magari con un bel ricordo di noi. Perché anche nei momenti drammatici, siamo un po’ scemi e riusciamo a strappare un sorriso o un cambio d’umore al pz. I pz hanno anche bisogno di assistenza psicologica.
Noi possiamo vedere i loro sorrisi, loro li possono percepire solo dai nostri sguardi. Ognuno ha i propri problemi. Comprendo chi non sta lavorando, chi non ha la possibilità di visitare i cimiteri o di chi non può frequentare luoghi abitudinari come chiese e palestre. Comprendo anche molte situazioni familiari sia economiche che sociali. È giunto il momento di ripartire, ma con senso civico. Spero che queste mie parole non siano buttate al vento e che ognuno di voi cerchi di essere il più responsabile possibile. Non significa che non dovete vivere, ma ci sono diversi modi di vivere la vita. Io sto facendo la mia parte mettendocela tutta e tu?
La combattiamo insieme questa battaglia?