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04 Oct

Rita Atria 25 anni dopo.

di Cristiana Mastronicola

A Roma faceva caldo quella domenica del 26 luglio del 1992. Di quel caldo che ferma le vite e le lascia sospese, sedate.

Nel cuore della città, in via Amelia, una ragazza, poco più che adolescente, spezzava quella domenica assopita e si gettava dal settimo piano di uno dei palazzoni alti del quartiere tuscolano. Solo una settimana prima, a spezzare un’altra domenica asfissiante, a Palermo, era stata la bomba che aveva ucciso Paolo Borsellino. Quella bomba che svegliava l’Italia tutta, la sconvolgeva e la coinvolgeva definitivamente nei fatti che straziavano la Sicilia.

A legare le due vite una linea sottile e robusta. Rita Atria aveva 17 anni e la sete di giustizia. Sete riposta, tutta, nella valigetta del giudice buono, “unica speranza”. Era testimone di giustizia, la “picciridda”. Figlia di mafiosi, aveva ripudiato le sue origini e si era messa contro la sua famiglia. Proprio come aveva fatto Piera, la cognata di Rita, l’unica in casa a sostenere quella scelta. Aveva parlato, Rita, aveva tradito le sue radici e denunciato la mafia. Quella che aveva visto e riconosciuto con gli occhi di bambina, quella che aveva ucciso il papà e il fratello. Quella che avrebbe ucciso il suo giudice, pure.

A Roma era arrivata perché andava protetta, Rita. A Roma moriva perché a Palermo moriva Borsellino. Sola. Perché nessuno, come Paolo, aveva preso le sue mani piccole accompagnandola durante quella giovinezza, fragile e indistruttibile insieme. Indistruttibile come la speranza che l’aveva sempre scortata, coraggiosa, nella strada che aveva scelto, impraticabile e impraticata dai più. Quella stessa speranza Rita l’aveva appuntata con meticolosa chiarezza sul suo diario. diario di adolescente cresciuta troppo in fretta, diario di donna caparbia, sicura, incrollabile. Come l’idea di antimafia che quella vita spezzata ci lascia sulla pelle, ancora oggi, venticinque anni dopo.

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