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22 Nov

Barche in cerca di rive!

di Michele Illiceto

Quando vediamo uno straniero, spesso dimentichiamo che anche noi siamo stati stranieri. E non rispetto al geografia dei luoghi, fatta di confini e di frontiere, ma rispetto alla topica della vita fatta di partenze, di arrivi e di cammini. Rispetto alla stessa nascita, e ancor di più rispetto alla morte.

Nel primo luogo che ci ha ospitati, eravamo come delle barche immerse in un oceano di acque avvolte da una placenta che non sapevamo di chi fosse. Non eravamo padroni di niente. Né dell’attimo in cui siamo sati concepiti né di quei primi giorni in cui abbiamo cominciato ad essere vivi.

Sospesi tra l’essere e il nulla siamo stati colti di sorpresa, senza aver avuto il tempo di capire, di scegliere e di decidere. Agganciati ad un respiro che veniva da lontano, disarmati e mal equipaggiati, siamo stati imbarcati su questa grande nave della vita. Senza salvagente, ci siamo trovati esposti alla trama degli eventi tra mille flutti e mille tempeste, in attesa di altrettante emozioni che ci potessero rassicurare e proteggere.

Non sappiamo se eravamo lì per miracolo o per capriccio. Per caso o per necessità. Per soccombere ad un destino o per rispondere ad un progetto. Nessuno lo sa. Di certo sappiamo che eravamo sulla soglia del tempo, in attesa di essere nominati, di essere guardati. “Adottati”, come direbbe M. Recalcati.

Eravamo in viaggio verso la vita, in cerca di una riva, già figli di un abbraccio che sapeva di carne, anche se non ancora eravamo stati guardati. Venivamo dalla notte, dall’antro oscuro di un abisso senza fondo. Ogni tanto si accendeva una luce che dava forma alla nostra sagoma ancora incerta, mentre una voce ci offriva calore e senso di protezione.

Chissà a quale porto saremmo approdati! Potevamo essere respinti, e invece siamo stati accolti. Raccolti. Poteva essere un abbandono e invece tutto si è trasformato in dono. Poteva essere un gioco inutile e dispendioso, e invece fummo conosciuti e riconosciuti. E i doni si ridanno. Si mettono in circolo, altrimenti si dissipano e si atrofizzano.

Poteva essere una cesura con l’eterno oppure un battito d’ali della trascendenza. Dibattuti tra una casa che ci aspettava ed un’altra che si sì disfaceva. Oggetti di una dialettica non solo biologica ma anche politica, tra chi ci voleva e chi ci rifiutava. Tra chi ci avrebbe venduti e chi ci avrebbe riconosciuti.

Non siamo stati gettati, ma ci siamo trovati immersi in un fitta rete fatta di cure e di mille attenzioni, di sguardi, di mani e di affetti. Senza patria, siamo approdati da stranieri in un luogo che ci ha resi familiari, figli e fratelli di sconosciuti. Siamo stati inclusi, e, dopo tanta erranza, da nomadi siamo diventati sedentari. Ci hanno dato la cittadinanza. Abbiamo messo radici in attesa che ci spuntassero le ali per cominciare a volare da soli.

Non abbiamo fatto niente per meritarlo. Per questo siamo in debito con la vita. Non per eccesso né per difetto, ma solo per grazia. Siamo stati ospitati da qualcuno che non ci ha chiesto il permesso di soggiorno. Abbiamo guarito la solitudine di chi aveva scoperto che non si può bastare a se stessi. Che anche se si è in Due, ci vuole un Terzo perché tutto sia compiuto. E il Terzo è sempre uno straniero che abita già da sempre la terra della tua identità.

Grazie vita che ci ospiti, che ci dai il permesso di nascere dopo tanto navigare e di restare ancorati tra tempeste inaspettate. Ti prometto che ospiterò ogni vita che viaggia verso di me ansimando nel grande utero di questo universo, dove da stranieri siamo tutti di passaggio verso una patria comune di fraternità.

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