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23 Nov

Le epidemie e l’opera dei santi, quella fede da recuperare

Mentre il Coronavirus porta alla sospensione di molte Messe pubbliche, quali esempi ci vengono da uomini di Chiesa del passato? Da san Gregorio Magno alla peste milanese del 1576-77 (quando san Carlo moltiplicò processioni e Messe all’aperto), fino al colera che seminò morte nella Torino di san Giovanni Bosco: i santi hanno affrontato e placato le epidemie accrescendo le preghiere e confidando nell’aiuto di Dio.

Una delle misure fin qui prese per limitare la diffusione del Coronavirus è la sospensione, in diverse diocesi del Nord e del Sud Italia, delle Messe “con concorso di popolo”. Se è vero, com’è vero, che questo fatto deve diventare l’occasione di combattere freddezze, distrazioni e accrescere la riverenza per il dono infinito del Santissimo Sacramento, è altrettanto vero che la facilità con cui sono state sospese le Messe pubbliche lascia storditi. Tanto più perché, al netto di alcune buone eccezioni, diversi comunicati vescovili hanno lasciato a desiderare anche sul piano del richiamo alla preghiera e alla necessità di affidarsi alla divina Provvidenza. Un problema di fede, dunque.

Poiché le epidemie non sono certo una novità nella storia, ci si può chiedere: quali esempi ci vengono da santi e uomini di Chiesa del passato? Ne ricordiamo alcuni.

Biennio 589-590. L’Italia era interessata da gravi disastri naturali nonché dalle violenze dei Longobardi, eventi che non pochi fedeli interpretavano come castighi divini per il dilagare dei peccati. A Roma il Tevere era esondato, causando danni ingenti, e si era diffusa una micidiale epidemia di peste che aveva avuto tra le sue vittime anche papa Pelagio II, morto il 7 febbraio 590. A succedergli sul soglio pontificio era stato chiamato colui che sarebbe passato alla storia come san Gregorio Magno, il quale cercò pure di resistere all’elezione, desiderando rimanere in monastero. Sta di fatto che il 29 agosto di quell’anno, prima ancora di iniziare il ministero petrino, il futuro Gregorio I tenne un’omelia in cui esortò i fedeli alla penitenza.

Sempre il santo, chiedendo l’aiuto di Dio, organizzò per tre giorni consecutivi solenni processioni verso la basilica di Santa Maria Maggiore. Ordinò la recita della «litania settiforme», così chiamata perché Gregorio fece dividere il popolo in sette cori (clero, monaci e abati, monache e badesse, bambini, uomini adulti, vedove, donne sposate). Ottanta persone, nel giro di un’ora, morirono durante la preghiera, ma Gregorio invitò i fedeli a continuare la loro supplica. Alla fine, mentre attraversava l’odierno Ponte Sant’Angelo, il santo vide l’Arcangelo Michele, in cima all’allora Mole Adriana, nell’atto di rimettere la spada nel fodero, segno dell’imminente fine della peste.

A san Michele Arcangelo è legato anche il ricordo della peste bubbonica del 1656 che nel solo Regno di Napoli causò, secondo le fonti, dai 240 mila ai 400 mila morti. Quando l’epidemia arrivò nella zona del Gargano, l’arcivescovo di Manfredonia, Giovanni Alfonso Puccinelli, iniziò a chiedere fervidamente l’intercessione dell’Arcangelo. Il quale gli apparve dicendo che chi avesse adoperato con devozione pietre del suo santuario sul Gargano sarebbe stato liberato dalla pestilenza. Puccinelli fece allora dividere in schegge alcune pietre del famoso santuario: vi scolpì una Croce e le iniziali di san Michele, raccomandando agli abitanti di esporre il segno presso le porte di case e palazzi. Il territorio di Manfredonia rimase immune dal morbo e l’evento, scrive la Treccani, «ebbe vasta eco anche a livello internazionale». A memoria dei fatti il vescovo fece erigere un obelisco in onore di san Michele, tuttora presente a Monte Sant’Angelo, con una scritta in latino: «Al Principe degli Arcangeli, vincitore della peste, patrono e tutelare, monumento di eterna gratitudine».

Impossibile non accennare poi alla cosiddetta «Peste di San Carlo», in cui la carità dell’arcivescovo di Milano raggiunse vette altissime. Era scoppiata nel 1576, quando il santo si trovava fuori Milano. Mentre la città veniva abbandonata dal governatore spagnolo e da altri maggiorenti, san Carlo si precipitò a rientrarvi, mettendo a disposizione tutti i suoi beni per gli ammalati e i bisognosi. Lui stesso andava nelle case e nel lazzaretto a portare conforto. Alla raccomandazione di osservare le necessarie norme igieniche, san Carlo univa la consapevolezza che solo Dio potesse liberare la città.

Così, chiamò sacerdoti dai paesi vicini, raccomandò di non far mancare al popolo il conforto dei sacramenti,  promosse un gran numero di preghiere e Messe all’aperto. A tale scopo, il santo fece erigere in mezzo alle strade una ventina di croci – qualcuna ancora esistente (molte, comprese quelle volute poi dall’arcivescovo e cugino Federico Borromeo, vennero demolite per ordine dell’imperatore Giuseppe II) – presso le quali veniva celebrata l’Eucaristia. Gli abitanti, magari in quarantena, potevano parteciparvi anche affacciandosi dai balconi. Notissimo è infine l’episodio della processione che san Carlo guidò, a piedi nudi, portando una croce lignea in cui era stata posta la reliquia del Santo Chiodo, per impetrare la fine della peste. Che effettivamente regredì.

In questi giorni, nel tentativo di giustificare la già accennata facilità alla sospensione delle Messe pubbliche, è stata richiamata anche l’esperienza del venerabile Angelo Ramazzotti, vescovo di Pavia durante l’epidemia di colera del 1854. Eppure si tratta di una situazione piuttosto diversa dall’attuale, sia per la mortalità del colera a quei tempi sia per le misure adottate. Come già il suo predecessore in diocesi (Luigi Tosi), il venerabile vietò sì processioni e Rosari pubblici e, in determinate circostanze, di amministrare l’Eucaristia ai colerosi: ma quest’ultima misura fu presa principalmente – visti i frequenti conati di vomito legati alla malattia – per riverenza verso il Santissimo Sacramento. Inoltre, né Tosi né Ramazzotti sospesero le Messe pubbliche. Anzi. Il venerabile suggerì pure di moltiplicarle «onde non ci sia così il pericolo di un soverchio affollamento». Alla prudenza, insomma, si accompagnava la certezza che nulla c’è di più potente e salvifico della Santa Messa.

Quella stessa epidemia di colera colpì seriamente, nel 1854, anche Torino. Accanto alle precauzioni sanitarie, san Giovanni Bosco si preoccupò innanzitutto dell’anima dei fanciulli dell’oratorio e assicurò che se si fossero messi «in grazia di Dio», senza commettere «nessun peccato mortale», nessuno di loro avrebbe contratto il morbo. Inoltre, il santo chiese loro la disponibilità a offrirsi come volontari nell’assistenza ai malati. In 44 si fecero avanti. Tra essi il giovanissimo san Domenico Savio. Nessuno dei 44 fu contagiato.

È questa fede nella Provvidenza che andrebbe recuperata.

FONTE Ermes Dovico https://www.lanuovabq.it/

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