00:00:00
22 Nov

La colonizzazione dello sguardo: la visione come riproduzione e mercificazione della realtà

30 Settembre 2018
2503 Views

di Michele Illiceto

La storia dell’uomo è anche la storia dei suoi sensi. Di ciò che ha udito, sentito, gustato, toccato, odorato e visto. Sensi a volte esclusi altre volte riabilitati, come è capitato a partire dalla fine del XVIII fino ai giorni nostri, nei quali forse vengono assolutizzati. Tra questi un ruolo fondamentale lo hanno svolto gli occhi.

La storia dell’umanità  –  e al suo interno, la storia personale di ciascuno di noi – è anche la storia dei propri occhi. Di ciò che essi hanno visto e trasmesso all’intelletto, ma anche di ciò che non hanno avuto il potere di vedere. Gli occhi: primo strumento di conoscenza che consentono il primo accesso alla realtà nella sua complessità. Non per niente l’Occidente, infatti, è nato più sotto l’influenza del primato della visione che da quello dell’ascolto, come invece è capitato alla tradizione semitica, in particolare quella ebraica

Gli occhi sono la finestra dei nomi, le anfore dei cuori. I luoghi di raccolta dove si realizzano le prime sintesi di ciò che si lascia sfiorare dai nostri sguardi. Crocevia di informazioni e di dati che, ancora grezzi e disarticolati, attendono di essere organizzati e sistemati. Ordinati. Dove avvengono i primi filtraggi, le prime selezioni, le prime sistemazioni, le prime sintesi. Dove il materiale grezzo della vita bussa alla porta della nostra ragione, ma anche del nostro cuore e della nostra anima.

L’anima e gli occhi: un rapporto complesso sul quale già Platone e Aristotele si sono soffermati percorrendo vie diverse e che difficilmente anche noi moderni e postmoderni riusciamo a focalizzare. Tutto passa dagli occhi per entrarci dentro. Tutto, e accanto al tutto anche il niente. Troppo o troppo poco. Sono essi la linea di demarcazione tra il visibile e l’invisibile. Dove si realizza il primo contatto tra l’interno e l’esterno. Tra il dentro e il fuori. Tra l’estraneo e il familiare. Linea di confine attraverso il quale ciò che è fuori ci entra dentro e ciò che ci portiamo dentro esce fuori.

Gli occhi sono il luogo dove sperimentiamo allo stesso tempo sia i nostri poteri sia i nostri limiti. Luoghi dove sono collocati i confini che separano ciò che è possibile vedere ma anche ciò che ama nascondersi. Con essi definiamo la lontananza e la vicinanza, misuriamo la distanza, fin quando i nostri sguardi non vanno a morire in un orizzonte che ci limita, il quale nel mentre rivela, occulta, mentre schiude e apre allo stesso tempo vela ciò che è oltre. E l’oltre è più che il “fuori”, come anche più che il “dentro”. Esso è ciò che annoda il dentro e il fuori. Al di là di ciò che vediamo ( o che pensiamo di vedere) e di ciò che invece si nasconde a noi prendendo la forma dell’invisibile.

Ed è su questa linea disegnata tra lo scomparire e l’apparire che comincia il gioco del nostro desiderio. Se tutto fosse visibile nulla sarebbe desiderabile. Invece molta realtà si gioca nella penombra di ciò che non vediamo e che pertanto lo cominciamo a desiderare. In tal modo scopriamo che il desiderio si costruisce proprio su questa linea di confine: tra ciò che ci è dato nella visione e ciò che ci viene negato nel nascondimento. È tra visibile e invisibile che si colloca uno dei più potenti registri antropologici di sempre: il desiderio.

Ecco qui una nostra prima tesi: senza l’invisibile il desiderio muore. Se tutto si mostrasse nulla più sarebbe desiderabile. Il desiderio  – che come ci ha insegnato una lunga tradizione che va da Platone a Spinoza, fino a Lacan, è la linfa stessa della vita – si nutre ci di ciò che non si vede.  E poiché come diceva Hegel filosofare è saper apprendere il proprio tempo con il pensiero., ecco che questa prima tesi fa nascere da subito una prima grande domanda che ci getta nel pieno svolgimento del nostro tempo: che fine ha fatto il desiderio nella nostra era tecnologica caratterizzata dalla ipervisione? Non è forse la morte del desiderio il sintomo del declino dell’invisibile?

2. Tuttavia ciò non basta. Il gioco tra visibile e invisibile è anche generatore del linguaggio. Infatti, anche i nomi sono figli dello sguardo perché noi nominiamo ciò che vediamo. Eppure mentre qualcosa è dicibile, qualche altra cosa non lo è. Le parole, infatti, nascono non solo per dire ciò che è, ma anche per indicare – senza dirlo – ciò che non è (e ciò che non è visibile). Il dicibile rinvia a qualcosa di ineffabile, di innominabile. Il linguaggio mentre dice allo stesso tempo tace, rinviando a qualcosa che non si può dire. Tra il dicibile-visibile e l’indicibile-invisibile si crea lo spazio per la poesia e l’arte. E forse anche per la religione. Certo, noi codifichiamo la realtà creando parole che vi devono corrispondere. E quando la realtà sfugge, i nomi mancano e le parole vacillano, lasciandoci orfani dei segreti che non riusciamo a carpire. Parafrasando Wittgenstein, di ciò che è, se si riesce a dire “come” esso è, di certo non riusciamo a dire di esso “perché”. Ed è qui che tra visibile e invisibile si insinua quello che Wittgenstein chiamava il mistico che in greco significa ciò davanti a cui si deve chiudere sia la bocca che gli occhi.

Con gli occhi trasformiamo gli stimoli in emozioni e sentimenti, organizzando i contenuti del nostro vedere in quel complesso mondo che è il registro dell’affettività. Il visibile è un visibile non solo percettivo-conoscitivo ma anche emotivo-affettivo. Non è solo sensazione o pura percezione, ma anche partecipazione, empatia che ci rende parte di ciò che vediamo. Il visibile ci tocca e ci segna. Ci ospita, ma allo stesso tempo ci rinvia. Entra dentro di noi ma non ci sazia. Ci cambia e ci trasforma, ci attraversa, ma poi anche ci interpella, imponendoci un movimento di autotrascendeza tanto caro a S. Agostino, il quale diceva: etsi tuam naturam mutabilem inveneris, trascende et te ipsum (se trovi mutevole la tua natura, trascendi te stesso)”. Verso dove o verso chi trascendersi? Appunto, verso l’invisibile. L’invisibile in noi e l’invisibile oltre noi.

Ciò che vediamo ci entra dentro fino a diventare parte di noi. Ci impressiona, ci stimola, ci informa, ci forma e ci trasforma. Ci educa o diseduca. Ci provoca e ci condiziona, costringendoci a rielaborare e a ricreare tutto quanto della realtà viene filtrato dai nostri occhi. Ma non basta. Il modo di essere di ciò che vediamo è la provvisorietà, la transitorietà, il passare il testimone ad altro. Ecco che torna ancora l’altro. Ancora l’oltre. L’altro è l’ancóra (Lacan direbbe Encore”) che apre il tempo della provvisorietà verso una eternità possibile. Torna l’oltre come luogo dell’altro. Non solo oltre gli occhi, ma anche oltre i nomi. Oltre le parole.

E qui si ha una seconda tesi fondamentale: l’invisibile salva il visibile dalla sua provvisorietà, dalla sua pura apparizione fenomenica, dal suo essere un apparire senza essere, dalla sua evanescenza e dalla sua vanità. E così nulla è vano, perché tutto è segno di una trascendenza che si nasconde nel cuore di ciò che si dà.   Ma l’invisibile non si dà senza che allo stesso tempo si dia la trascendenza. Oggi che fine hanno fatto ambedue lo si sa.

3. Perciò, parafrasando una famosa frase di Feuerbach, possiamo di certo dire che l’uomo è ciò che guarda. Eppure ciò non basta. Egli non è solo colui che guarda, fino a identificarsi con ciò che gli passa attraverso gli occhi, ma anche colui che è guardato. Guardato da qualcosa o qualcuno che si nasconde ai suoi occhi, perché ciò che lo guarda può a sua volta non essere guardato. Altro spazio in cui si gioca il rapporto tra visibile e invisibile. Egli è guardato senza che necessariamente lo sappia. Guardati, guardiamo. Anzi, prima che guardare, noi siamo guardati.

L’uomo, direbbe Heidegger, essendo stato gettato nel mondo, è sempre in ritardo rispetto a quando, aprendo gli occhi sul mondo, si rende conto di ciò che gli si dipana davanti. Noi ci troviamo (ecco il senso della Befindlichkeit heideggeriana) immersi in una realtà che ha gli occhi più grandi dei nostri. Ci troviamo cioè, come ha ben descritto Sartre nel suo L’essere e il nulla, esposti allo sguardo delle cose, e ancor più degli altri. Sappiamo di guardare, ma non sempre sappiamo di essere guardati e da chi. Sapere di essere guardati e non sapere da che cosa o da chi, è per noi fonte di paura. È una delle nostre fragilità più costitutive che ci rende profondamente insicuri, e quindi bisognosi di cura.

Noi che vediamo, a nostra volta siamo visti da qualcosa-qualcuno che non vediamo. Perché, in fondo, siamo esposti, e se le cose stanno così allora siamo senza difesa. Lo sguardo degli altri non è solo – come voleva Sartre – uno sguardo che ci spoglia, ci denuda, ci insospettisce, ci attenta, ci oggettiva e ci reifica. Ma è anche uno sguardo che ci incuriosisce, ci stupisce, ci invoca, ci attende, ci cerca, ci rivela il fatto che non solo ci manca qualcuno ma anche che manchiamo a qualcuno. Da qui una scelta difficile di chi come noi si trova al bivio tra visibile e invisibile: farsi vedere o restare nascosti?

Ecco una terza tesi: l’invisibile fa paura perché non è codificabile, non si lascia identificare. Non è dominabile. È un attentato alla nostra identità, specie se questa è ben consolidata. Un graffio ai nostri luoghi familiari. L’invisibile fa paura perché potrebbe essere diverso rispetto a come ci siamo abituati a vedere le cose.

E così, dentro il mondo delle nostre sicurezze, l’invisibile disegna uno spazio di non padronanza. Come ci hanno insegnato i greci, ci salva dalla hybris, dalla tracotanza, da un uso delirante del potere, che, se non sottoposto ad una misura dettata dalla ragione, potrebbe produrre effetti sui quali – come hanno sostenuto sia H. Jonas nel suo Il principio responsabilità che G. Anders nel suo L’uomo è antiquato – non abbiamo alcun potere di controllo, perché, come aveva già visto Hegel, provocherebbe delle controfinalità rispetto alle quali la kantiana “etica dell’intenzione” non reggerebbe più.

L’invisibile ci salva sia dalla tracotanza sia dall’idea di un uomo che pretende di porsi come padrone-despota proponendoci, al contrario, un modello antropologico che vede l’uomo più come custode che come padrone, come ha sostenuto recentemente Papa Francesco nella sua enciclica Laudato sii a proposito di della custodia del creato.

Ma ci salva anche dalla dipendenza altrui. Dal bisogno di essere visti a tutti i costi. Quasi avere la sensazione che cominciamo ad d esistere solo nella forma degli occhi altrui. Negli specchi sociali oggi dominanti creati solo per manipolarci e per dominarci.

4. Ma che cosa vede l’uomo quando guarda? E con che cosa vede? E fin dove si estende il suo vedere? Il vedere delimita un orizzonte circoscritto dagli occhi. Il visibile è il definibile. Solo che il confine continuamente si sposta. Il problema allora è se ciò che vediamo coincide con ciò che è, oppure si limita a graffiare la realtà senza mai scovarla definitivamente. In altri termini si ripropone la vecchia e annosa questione se ciò che vediamo è solo l’apparire di ciò che è o è l’essere nel suo stesso apparire? Ci inganniamo o ci rassicuriamo? Nello sguardo essere e apparire si dividono o restano uniti? La filosofia ha seguito sempre questa doppia possibilità entro la quale ha giocato uno dei suoi più importanti capitoli: quello relativo alla verità.

Sia nell’una o nell’altra ipotesi viene da chiedersi chi decide che sia così. Il visibile è il prodotto di una decisione, di una interpretazione, di un prospettiva come direbbe Nietzsche, oppure, è il diktat dell’oggetto che impone a noi un proprio perimetro di azione, a cui adeguare la nostra visione? E se è così, chi decide? Sempre noi. In tal modo l’uomo diventa prigioniero dei propri occhi. Prigioniero di ciò che vede. Prigioniero della propria immagine. La tentazione, qui, è quella messa in evidenza da Heidegger nello scritto Die Zeit des Weltbildes:  ridurre il mondo all’immagine che di esso ci siamo fatti tramite il nostro vedere. Nel vedere l’uomo si erge a subjectum riducendo la realtà a objectum,, a Gegenstand direbbero i tedeschi. Per cui ciò che è coincide con il modo con il quale facciamo stare le cose a partire dal nostro modo di stare. Il visibile è il modo di stare delle cose nella forma del “contro-stare” rispetto al nostro “sub-stare”.

Come superare questo divario tra oggetto che viene visto e soggetto che ha il potere di definire come esistente ciò che vede? Una via di uscita – non del tutto chiarita –  è certamente quella indicata dalla fenomenologia di Husserl. Vedere, per il filosofo tedesco,  voleva  significare lasciare venire le cose nello spazio della propria manifestatività. Solo che Husserl ha lasciato irrisolta una grande questione: lo spazio del visibile – definito come spazio della manifestatività – va interpretato come spazio fenomenologico o come spazio ontologico? E qui ci sono state consegnate due strade. La prima da Husserl stesso, il quale  ha letto lo spazio ontologico come spazio fenomenologico. La seconda da Heidegger, il quale, rivoltandosi contro il suo stesso maestro., ha introdotto una radicale deviazione interpretando lo spazio fenomenologico come spazio ontologico.

Per il primo, l’essere coincide con il suo darsi, e, in ultima analisi, con un darsi  che si configura come spazio coscienziale. Per il secondo, invece, ogni darsi è epifania dell’essere che precede e deborda ogni coscienza. Per il primo il darsi delle cose si realizza nella relazione tra coscienza e mondo (l’intenzionalità), per il secondo esso è un evento precoscienziale di natura del tutto esistenziale, che definisce il gesto originario di un Essere del quale noi non siamo padroni ma solo “pastori”.

5. Ma le cose, se potessero, scapperebbero da noi. Fuggirebbero dal potere che i nostri occhi hanno di trasformarli in puri “oggetti”. In qualcosa di “disponibile”, oltre che di “ponibile”. Con la morte dell’invisibile la realtà viene privata di un luogo in cui ritirarsi. In cui nascondersi. Un luogo in cui raccogliersi. Raccogliersi per riposarsi. Per rigenerarsi in quel segreto che la rende continuamente affascinante e degna di essere cercata.

La filosofia greca, fin ai suoi esordi,  ha cercato di arginare questo pericolo, riconoscendo l’importanza di questo spazio, quando con Eraclito si arrivò a dire le due famose tesi: la prima che dice che «La vera natura delle cose ama celarsi» (DK 22, 123) e la seconda che afferma che «Per quanto tu vada innanzi, mai troverai i confini della tua anima tanto profondo è il suo logos» (DK, 22, 45).

Se inquadriamo questa riflessione nella nostra era dell’iperconnessione e dell’ipertrasparenza, è facile notare che il rapporto tra visibile invisibile è andato ulteriormente compromettendosi. La domanda non riguarda solo che fine ha fatto l’invisibile, ma ancor più che sorte è toccata allo stesso visibile. Nell’era del consumismo, il visibile coincide con il riproducibile. Con l’esibibile. Con ciò che viene ostentato. Se prima la visione era funzionale alla conoscenza (e in certi periodi addirittura alla contemplazione), oggi tutto viene fatto per essere “scambiato”.

La riproducibilità e la scambiabilità, strettamente collegati tra di loro, costituiscono insieme il nuovo paradigma che definisce lo spazio della visione. La nuova cifra che va a codificare la dignità di ciò che si lascia vedere è la mercificazione come effetto diretto della stessa riproducibilità economica. La visione è al servizio del mercato, per cui è visibile solo ciò che è traducibile in merce di scambio che a sua volta permette la fruizione immediata di ciò che si concede come ciò che è accessibile.

Il visibile non rimanda più ad un segreto che, inquietando, affascina, che custodisce la forma (l’eidos platonico colto nel suo significato originario di forma-essenza) in cui è riposta la traccia ultima sia della sua aletheia, (verità) che della sua bellezza-bontà (della sua kalokagathia). Con la morte dell’invisibile, ormai la realtà è senza mistero. Senza velo. Per questo è volgare. O meglio viene continuamente volgarizzata perché denudata da occhi diventati violenti, usurpatori, oltre che manipolatori e semplici fruitori. E se la realtà ha perso il suo alone di mistero, le parole che la dicono si inflazionano, mentre i significati perdono l’origine da cui nascono, creando un cortocircuito semantico che priva il linguaggio di quella zona mistica tanto cara a Wittgenstein.

Non si “vede” più per “contemplare” o per “conoscere”. Per “stupirsi” e per gioire di ciò che si vede senza tuttavia consumarlo. Per entrare in relazione, tramite il visibile, con l’invisibile che genera il desiderio quale matrice di ogni passione. Al contrario, si “vede” per “avere” e “possedere”, per “usare” e “manipolare”, per “trasformare”, per “scambiare”, e, scambiando, per avere il potere di “fare essere le cose”. Farle essere e farle scomparire.

6. Questa esperienza non è fine a se stessa, ma serve a far provare la sensazione di avere il potere di decidere i confini tra il visibile e l’invisibile. Sostituirsi al mistero è stata sempre la grande tentazione dell’uomo quando dimentica la sua originaria condizione di ontologica fragilità. Questa forma di potere poi si trasforma in quello che consiste nel dire agli altri  –  e a noi stessi – che le cose ci sono perché “io ci sono”. La visione mi rende non solo produttore, ma anche padrone. Nulla mi resiste perché tutto esiste a cominciare da me. La visione finisce con l’essere una pura proiezione narcisistica di un io che non vuole finire mai, che non lascia essere nulla fuori di sè. Nulla “oltre” sé. Che vuole vedere solo se stesso. E che per fare questo deve esorcizzare tutto ciò che non cade sotto il potere dello sguardo del proprio io.  In questa direzione lo scopo è assimilare al proprio io vedente tutto ciò che non è parte di sé, tutto ciò che non è accessibile agli occhi, tutto ciò che non è visibile secondo la misura del proprio sguardo. Nella morte dell’invisibile a pagare il prezzo più alto è proprio il visibile, la cui condizione è paragonabile a quella di un quadro senza parete.

La visione come riproduzione e mercificazione della realtà non fa altro che veicolare una verità che in fondo è una grande bugia, la più grande del nostro tempo: quella che mi fa credere che tutto è assimilabile al mio io. E così la realtà muore sulla soglia dei miei occhi, facendo morire i miei stessi occhi che non hanno più alcun “oltre” di cui nutrirsi.

Agli occhi oggi manca l’assenza, manca la stessa mancanza, il sottrarsi di qualcosa che nello spazio dell’invisibile può rinascere, facendomi rinascere oltre il godimento che di esso ho consumato. Quell’invisibile che fonda il desiderio, che fa della privazione una opportunità per ripartire senza distruggere. La visione una volta apriva spazi di alterità e quindi spazi di ospitalità. Oggi, invece, in un io ingigantito, che pensa di avere il potere di fare esistere le cose, il mondo e gli altri, essa rende saturo tutto ciò che vede, facendolo scomparire. La realtà scompare sotto occhi troppo sazi.

7. Ma il discorso non finisce qui. Il visibile oggi ci sta creando un altro problema: ci sta dando l’illusione di avere un potere ancora più grande: il potere di essere l’origine. Di essere all’origine. Di essere il luogo dove le cose, gli altri e il mondo, nascono. Ma, parafrasando il vecchio K. Marx, laddove le cose nascono tramite la produzione (che ha preso il posto del vecchio e superato concetto di creazione) là le cose muoiono tramite la loro mercificazione.

In questo nuovo contesto di ipervisualizzazione, dove tutto diventa accessibile agli occhi, disponibile e fruibile, le cose non hanno più un luogo in cui ritirarsi. In cui rinascere e tornare a stupirci. Più che “vedere” lasciando essere le cose, si preferisce “farsi vedere”, facendo morire le cose, specie se non sono a nostra immagine. Si tratta di una nuova forma di imposizione che mette in atto quella che possiamo definire la colonizzazione dello sguardo”.

Questa strategia viene praticata dai più allo scopo di uscire dall’anonimato e dal rischio di essere dimenticati. Di essere posti fuori scena. Si ha paura di restare invisibili, perché l’invisibile è il luogo della non esistenza, dell’oblio e della dimenticanza. Luogo dell’assenza e della insignificanza. Se tu sei e non vieni visto è come se tu non fossi. E allora tutti a correre per farsi vedere. Tutti a occupare spazi di visibilità. E dove? Sui social network, sui blog, nelle chat line. Lì la visione non rinvia a null’altro, ma consuma ciò che viene visto nell’atto stesso in cui viene visto.

Nell’era dell’ipertrasparenza, come l’ha definita il filosofo coreano Byung-Chul Han, il confine tra visibile e invisibile si è molto assottigliato, diventando molto labile. Tutto deve diventare visibile. Anche il potere ha cambiato registro. Esso consiste non più nel sapere ciò che la visione concede, ma nel potersi rispecchiare, tramite i molteplici spazi di visibilità, in una realtà che ci moltiplica perché fatta a nostra immagine.

Non siamo più nell’epoca della soggettivazione, del soggetto assoggettato di foucaultiana memoria, ma nell’epoca della soggettivazione che è propria di un soggetto che assoggetta. Solo che un soggetto che assoggetta la realtà tramite la riduzione alla visibilità, finisce per restare a sua volta assoggettato, come soggetto svuotato, da ciò che vede. La morte del soggetto è generata dalla morte provocata dal suo stesso potere di vedere troppo. Nell’erigersi a specchio del mondo, nel quale il mondo stesso non è che un riflesso della nostra immagine a cui la realtà è stata ridotta, l’uomo si desoggettivizza, svuotandosi.

Il potere di mostrare in tal modo supera ogni altra forma di potere. Nell’era dell’accesso, come l’ha definita Rifkin, tutto deve essere sotto gli occhi di tutti.  Gli occhi non guardano, consumano. Non contemplano meravigliati, padroneggiano incontrastati per godere non tanto di ciò che vedono, ma per godere del fatto che posseggono ciò che vedono. Il vedere è funzionale al possedere e quest’ultimo al godere. Ma tutto ciò ha un prezzo: da custodi ci siamo trasformati in padroni a cui nulla deve essere negato, ma ai quali tutto deve essere concesso. Dispotismo dello sguardo che fa del nostro tempo l’era del più profondo voyerismo, di cui l’onanismo emotivo, oggi dominante, si nutre a piè sospinto..

8. In questo nuovo contesto a farne le spese non è stato solo il visibile, ridotto ormai a un prodotto scambiabile e riproducibile per essere alla fin fine consumabile, ma anche l’invisibile. La domanda che sorge a questo punto è: come è cambiato il rapporto tra visibile e invisibile nell’era della ipertrasparenza? Anzitutto dovremmo definire che cosa è l’invisibile. Ci possono essere due definizioni: la prima che dice che esso coincide con ciò che non è affatto raggiungibile dal nostro sguardo, dovuta a una sorta di impossibilità ontologica che ci impedisce di vedere certe cose e certe realtà. Un limite invalicabile è posto a causa della nostra finitudine di kantiana memoria.

La seconda invece ci dice che l’invisibile è ciò che è visibile con uno sguardo altro. Con un altro registro. Quindi non ciò che non è visibile in sé, ma ciò che è visibile in modo “altro” rispetto al nostro comune modo di vedere. E qui ci viene in aiuto non tanto la fenomenologia che da Husserl a Merleau-Ponty si è imbattuta nei limiti dello sguardo che ha preteso di “andare alle cose stesse”, ma dal pensiero neoebraico, in particolare da alcuni pensatori come ad es. E. Jabes e E. Levinas.

Che cosa resta invisibile? Di certo l’in-sé. Ma questa è una parola troppo metafisicheggiante. Tant’è che nell’epoca definita da Habermas post-metafisica, purtroppo una certa filosofia a causa del fatto che l’in-sé non è visibile, lo ha  definitivamente debellato, proclamandone la morte. Tutto è stato ridotto al per-me come sapzio del visibile e della visione certificante. Ma che cosa sarebbe un per-me se non ci fosse un in-sé? L’in-sé è l’atto sorgivo della cosa, il suo atto fondativo. Il suo Inizio. Il suo cominciamento, direbbe Hegel. La sua ragione d’essere direbbe Leibniz.

Ecco allora che cosa è l’invisibile: il perché di una cosa. Il perchè di ciò che è. Invisibile è il fondamento. Infatti, come senza il fondamento le cose cadono nel non senso del nulla nicciano, così senza l’invisibile il visibile si consuma nell’atto stesso della sua visione. Oggi, in pieno nichilismo, che sulla scia di Nietzsche sostiene che manca il perché e manca il fine, il fondamento non solo resta invisibile, ma viene considerato una creazione illusoria che l’uomo ha costruito per mettere ordine alla realtà, sì da renderla accettabile e vivibile.

Potremmo allora concludere con Erasmo da Rotterdam il quale ebbe a scrivere: «E poi ci sono i filosofi, venerandi per barba e capelli: affermano di essere i soli sapienti; tutti gli altri sono soltanto ombre inquiete. Ma com’è bello il loro delirio quando costruiscono mondi innumerevoli; quando misurano, quasi col pollice, il sole, la luna, le stelle, le sfere; quando rendono ragione dei fulmini, dei venti, delle eclissi e degli altri fenomeni inesplicabili, senza la minima esitazione, come se fossero dei segreti della natura artefice delle cose, come se venissero a noi dal consiglio degli Dei! La natura, intanto, si fa delle gran risate su di loro e sulle loro ipotesi» (Erasmo da Rotterdam, Elogio alla follia).

Ecco la sfida che ci sta davanti: salvare l’invisibile per salvare il visibile.

Da altre categorie